“I bambini di Svevia”: un viaggio straordinario in un passato dimenticato. Dialogo con Romina Casagrande

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Esce oggi in tutte le librerie italiane I bambini di Svevia, il nuovo libro della casa editrice Garzanti, di fatto l’esordio letterario per l’autrice altoatesina Romina Casagrande. Parentesi Storiche l’ha incontrata qualche settimana fa per sondare tutte le sue emozioni e per conoscere i retroscena legati a questa avvincente pubblicazione che si preannuncia già un successo internazionale.

 

A cura di Sara Cavatton – Verona

È così che molto spesso – per non dire sempre – nascono le idee, i progetti: ti vengono a cercare, bussano alla tua porta, te li ritrovi tra le mani inconsapevolmente. Le prime pagine de I bambini di Svevia mi hanno raggiunto direttamente a casa, come anteprima assoluta all’interno della rivista Il Libraio: era già capitato altre volte, la mia curiosità di appassionata lettrice viene nutrita per lo più da simili annunci e anticipazioni sulle novità letterarie. Ma questa volta è stato diverso: il titolo del nuovo libro in uscita, ma soprattutto il nome della sua autrice mi hanno colpita perché riguardano la storia della mia regione. Romina Casagrande, infatti, pubblica con Garzanti una vicenda romanzata ispirata alle esperienze di migliaia di bambine e bambini, che per tre secoli e fino alla seconda guerra mondiale furono venduti dalle loro famiglie per lavorare nelle fattorie dell’Alta Svevia.

Abitiamo nella stessa città, ci saremmo forse già incontrate per caso in altre occasioni, questa però è quella decisiva per me, per tutti coloro che vogliono leggere una storia diversa, indimenticabile, che aiuta a scoprire le bellezze e i complessi accadimenti di una terra di confine. Da oggi potete correre in libreria per acquistare il romanzo e leggerlo tutto d’un fiato, lasciandovi travolgere dalle emozioni di una narrazione che è sì un tuffo nel passato, ma anche un grande strumento di comprensione del presente.

L’autrice, Romina Casagrande, è nata a Merano nel 1977. Dopo una laurea in Lettere classiche conseguita con il prof. Maurizio Giangiulio – esperto in scienze dell’antichità e storia greca, autore di Democrazie greche. Atene, Sicilia, Magna Grecia (Carocci 2015) – insegna da quasi venti anni materie letterarie nelle scuole medie della città altoatesina. Ha collaborato con diversi musei del territorio occupandosi di didattica museale. Da sempre grande appassionata di storia, tradizioni e folklore, divide il suo tempo tra insegnamento, scrittura e pittura in una casa piena di animali. Parentesi Storiche ha voluto incontrarla per capire dove e come nasce una narrazione dalla forte componente storica, quali sono le origini e i pensieri di un’autrice che si appresta a entrare nel mondo della grande editoria; non da ultimo, quanto sia importante scrivere e trasmettere storie del passato… perché «costruire la Storia significa raccontarla» (Henri Pirenne).

 

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Cara Romina, innanzitutto chi sono i bambini di Svevia e perché hai deciso di dedicare loro un romanzo?

Devo ammettere che non conoscevo questa pagina di storia, mi ci sono imbattuta in quegli anni in cui ho lavorato come insegnante in Val Venosta, una valle nei pressi di Merano, dalla quale nel corso dei secoli sono partite centinaia di bambine e bambini: varcavano il confine spinti dalla miseria delle loro famiglie d’origine, affrontavano poi un lungo viaggio attraverso le montagne per giungere alle ricche fattorie della Svevia dove, tra mille disagi e vessazioni dei padroni, lavoravano nelle stalle, nei campi e nelle “Stuben”. Spesso era il prete del paese ad accompagnare i bambini, un’associazione cattolica faceva da garante – quando, dopo la prima guerra mondiale l’attività associazionistica venne smantellata, il fenomeno continuò in forme illegali. La sua durata quindi e l’età dei piccoli viaggiatori (dai 5 ai 14 anni) mi hanno colpita nel profondo, mi sono sentita a disagio per non aver conosciuto prima la loro storia. Ho cominciato allora a fare ricerche, partendo innanzitutto dall’archivio del Museo della Val Venosta che conserva documenti relativi anche a questo tema, ai cosiddetti “Schwabenkinder”. Nel momento in cui ho compreso chi fossero questi bambini ho sentito la forte esigenza di dare loro un’identità, indagando tra nomi e vissuti grazie a diari, testimonianze e fonti archivistiche provenienti, tra gli altri, da Ravensburg e dal portale www.schwabenkinder.eu. Progressivamente è nato dunque questo romanzo che ha come motore il fatto storico: volevo in qualche modo creare un tramite tra le vicende storiche di questi bambini e la realtà, trovare un modo per trasformare la memoria in racconto storico da divulgare.

Come è nato in pratica questo nuovo libro? Di solito come si sviluppano le tue storie?

Per me ogni storia nasce dalla realtà. Sento quindi l’estremo bisogno di vedere con i miei occhi l’ambiente di cui scrivo: la percezione visiva è per me alla base della scrittura. Così è stato con il viaggio a Vienna (documentato sul mio blog https://rominacasagrande.wordpress.com/) per il romanzo su Egon Schiele e le donne della sua vita (Le ragazze con le calze grigie, Arkadia Editore 2018): visitando il suo atelier, ammirando da vicino le sue opere… Allo stesso modo, più di recente, è avvenuto con I bambini di Svevia: sono stata ispirata dalla vita in Val Venosta, dai suoi passaggi e dalle sue montagne, proprio lì dove avevo scoperto dell’esistenza di quei bambini. Ho quindi intrapreso in prima persona il viaggio sulla via antica dell’emigrazione, per la quale sono transitati i Romani, le più svariate merci e i pellegrini durante il medioevo. Ho voluto vivere direttamente il percorso, spesso tortuoso e caratterizzato da un profondo dislivello, che i giovani lavoratori erano costretti a fare. In questo modo ho visto con i miei occhi le cappelle votive del Settecento, tra cui quella lignea di san Cristoforo protettore dei viandanti; ho confrontato ciò che vedevo con fotografie di epoche diverse, ho incontrato altri viaggiatori che mi hanno ispirata per quelle figure che Edna, la mia protagonista, conosce lungo il suo coraggioso cammino: è proprio così, nel momento in cui incontri altri viandanti racconti e trasmetti loro spezzoni di vita, quello che sei, che hai vissuto in pochissimi istanti… è meraviglioso.

 

Edna è una figura forte e caparbia, ci insegna che nella vita esiste sempre una seconda possibilità. Da dove è nata l’idea per questo personaggio?

In generale l’adolescenza e la terza età sono i periodi della vita che mi piace sondare a livello letterario. Ammetto, però, di restare sempre affascinata dalle persone molto anziane: non invecchiano realmente finché hanno la curiosità di scoprire il mondo. Pensando poi ai dimenticati e a quelle voci che spesso non trovano espressione, che sono diventati a malapena dei numeri in un archivio, è nata Edna, una donna di una certa età, ma ancora in buone condizioni fisiche, forte, coraggiosa, caparbia, con una impellente esigenza di riscatto e un altrettanto forte voglia di vivere: da lei la società non si aspetta più nulla, ma alla sua età la vita non è finita, Edna ha una continua voglia di imparare, è combattiva e curiosa. Nel romanzo è costretta ad affrontare sia le inevitabili difficoltà fisiche del viaggio che intraprende per riuscire a mantenere una promessa fatta molto tempo prima, sia le difficoltà psicologiche dovute all’ambiente esterno, alle persone a lei amiche che non sono d’accordo sulla sua scelta. Nonostante tutto, si muove da sola e senza nessun aiuto. Perché è arrivato il momento di mantenere la parola data, dopo che per tutta la vita si è sentita in debito con Jacob, «il bambino dagli occhi piegati all’ingiù»: incapace di prendere una decisione, ha convissuto con il rimpianto di non aver aiutato Jacob, di non averlo salvato. Edna ha sopportato la pesante sensazione di non essere abbastanza. Ma arriva finalmente il giorno in cui può prendersi una rivincita, riscattarsi da questo peso per poter essere davvero libera.

Che cosa vuoi trasmettere quindi attraverso I bambini di Svevia? Cos’ha di diverso, di nuovo questo romanzo?

Per me un libro deve dare emozioni: deve essere un’esperienza emotiva forte, sia in senso positivo che negativo. Deve contenere diverse sfumature che possano venire accolte, raccolte dal lettore anche in base alla sua storia personale. Con questo lavoro ho cercato allora di costruire una storia completa a livello emotivo: viene presentato uno spettro di emozioni più ampio rispetto ai miei precedenti romanzi. Attraverso Edna volevo dare speranza, pur mantenendo verosimiglianza con la realtà storica: è una storia di seconde occasioni – sono importanti nella vita, ciascuno ne ha diritto. In ogni caso, alcune mie caratteristiche nello stile e la centralità di certe mie passioni restano, come per esempio l’elemento della natura e l’amore per gli animali. Tra tutti, ho voluto dare un ruolo significativo al pappagallo Emil, compagno di vita di Edna: io stessa ne ho tre a casa, sono creature estremamente affascinanti, intelligenti e curiose. Emil è simbolo della “speranza di riscatto” dei due protagonisti umani, è l’anello di congiunzione, il simbolo della promessa fatta.

Come sei riuscita a sviluppare l’architettura del romanzo? Sappiamo che hai frequentato la scuola Palomar: quanto è stata utile questa esperienza?

Quello percorso alla Palomar è stato un percorso di pura adrenalina, a volte anche in salita, in cui però sono stata gratificata dal continuo confronto con professionisti di talento e dal grande intuito. Mi sono sentita ascoltata, ma anche motivata a non scegliere le soluzioni più facili e a sviluppare il mio potenziale creativo: partendo dal presupposto che io per prima dovessi credere nella storia che avevo in mente, ho imparato a prendermi il mio tempo, a lavorare sul testo senza mai accontentarmi. L’ideazione de I bambini di Svevia è stata, infatti, piuttosto complessa, lunga un anno abbondante di intenso lavoro, ma poi ho avuto la soddisfazione di incontrare gli editori e di parlare della mia storia: l’entusiasmo di vedere i miei personaggi intraprendere un altro genere di viaggio, questa volta per trasformare il romanzo in un libro, sono stati una sorpresa e una grande soddisfazione. Si tratta di fatto di due storie, in continuo dialogo tra loro. Quella di Edna e del suo viaggio tra le montagne, laddove i confini si fanno più labili, che viene intrecciata a quella dei bambini di Svevia, storicamente accaduta e per la quale quindi ho avviato un accurato lavoro di ricerca, documentazione, studio e lettura delle fonti. Per me è importante che il lettore abbia una restituzione storica affidabile, che le situazioni siano verosimili – in questo senso ammiro molto il lavoro fatto da Stefania Auci con il suo romanzo sulla famiglia Florio (I leoni di Sicilia, Editrice Nord 2019).

 

 

Qual è allora il senso del rapporto che hai costruito tra storia, letteratura e memoria?

Credo fortemente che la storia, la ricerca storica, debba fare – e, se possibile, vincere – una scommessa: ha il dovere di rendersi maggiormente appetibile, chiara e sincera per il pubblico; se ciò che viene scritto, studiato e ricercato resta interamente agli addetti ai lavori non ci giochiamo tutte le carte. Di fatto i lettori e le lettrici ci restituiscono la voglia di conoscere storie nuove. Scrivo quindi perché voglio gettare un seme grazie al mio libro, far trovare un fondamento di realtà a chi legge: io stessa imparo molto da altri mentre leggo, perciò inserisco nei miei romanzi quello che vorrei conoscere. Mi piacciono i libri in cui si racconta una storia: lo stile deve essere al servizio della storia. Ricordare e trasmettere la memoria di fatti del passato (anche molto recente) ci aiuta a comprendere meglio la realtà complessa in cui siamo immersi.

Parlando nello specifico della tua scrittura: da dove ha avuto origine e come si è sviluppata?

In verità, ho scritto e letto molto sin da bambina, provo un amore profondo verso i libri e le storie che raccontano: mio padre mi ha trasmesso questa grande passione, era un grande lettore, a lui in anteprima feci leggere il primo scritto anche se mi vergognavo un po’… La mia scrittura nasce come qualcosa che deve essere intimo, segreto perché quando scrivo non so ancora se il testo potrà e avrà la forza di diventare un vero libro. Il mio processo di scrittura è un fatto intimo e personale, lo tengo per me – di solito solo una, massimo due persone di riferimento sanno quello a cui sto lavorando. All’inizio, nei primi anni, avevo addirittura pensato di usare uno pseudonimo per pubblicare! Poi ho scelto diversamente.

Cosa ci dici, invece, del tuo stile?

Ha avuto di certo un’evoluzione nel tempo: all’inizio, subito dopo gli anni universitari ne avevo uno che definirei barocco, specialistico, ricco di aggettivi, sicuramente figlio degli anni di studio e ricerca all’università; in seguito sono passata a un tipo di scrittura più sintetico e pulito. In questo senso la lettura di autori con uno stile diverso dal mio e la professione di insegnante mi hanno aiutato moltissimo nel migliorare la prosa, rendendola più efficace, ora cerco di far arrivare direttamente il messaggio che voglio trasmettere. A lezione con i ragazzi, infatti, non puoi usare troppe parole, devi trasmettere il cuore della storia. Comunicare emozioni è fondamentale per me: sono universali, altrimenti come riusciremmo a spiegare la poetica di Machiavelli, Leopardi o Manzoni se non raccontassimo prima di tutto dell’uomo?

Dopo un’asta con i più importanti editori italiani che effetto fa essere pubblicati da Garzanti?

Incredibile e bellissimo! Devo dire che questa storia era effettivamente pronta da qualche tempo: l’ho mandata a varie case editrici, sono stata a conoscere le diverse realtà editoriali e poi tra tutte le proposte ho scelto Garzanti. È un privilegio poter scegliere la casa editrice con cui pubblicare, ma da subito mi sono sentita accolta con calore e grande professionalità. Ho percepito immediatamente un grande spirito di squadra e di umanità, una rigorosa attenzione al mio lavoro di autrice. Certo, non riesco ancora a credere che mi trovavo in sede a Milano per presentarmi al gruppo editoriale quando poco prima di me era stato ricevuto nientemeno che Donato Carrisi!

Questo è di fatto considerato il tuo esordio letterario; in realtà vi giungi dopo un percorso di scrittura eterogeneo in cui hai spaziato dai racconti fantasy ispirati a miti e leggende tradizionali [v. Amailija (Anguana Edizioni 2011) e Scenderà un’altra notte (Nulla die 2015)] ai libri di ispirazione storico-artistica [v. La Medusa (2014), Lontano da te (2017) e Le ragazze con le calze grigie (2018) – Arkadia Editore].

Per il mondo editoriale il mio è un vero e proprio esordio perché arriva dopo un preciso percorso di ideazione letteraria, editing e marketing condotto insieme alla mia editor e al gruppo Garzanti. Rispetto agli altri miei scritti questo testo ha già venduto i diritti all’estero, è stato oggetto di contesa tra diverse case editrici, verrà tradotto persino in arabo. Per me è quindi tutto nuovo, è un’avventura bellissima e infinita… ma amo le sfide! È grazie al cammino di crescita personale e di evoluzione nel mio stile, passando attraverso tutte le storie dei personaggi precedenti che sono giunta sino a qui. Ognuno di loro, così come avviene con le persone nella vita reale, mi ha in un certo senso cambiata e ispirata.

Tra i primi lettori de I bambini di Svevia figura anche Ilaria Tuti, autrice di successo di Fiori sopra l’inferno (TEA, 2018) e Ninfa dormiente (Longanesi, 2019). L’ha definito «stupendo, un romanzo che ha anche il pregio di portare alla luce una storia vera sconosciuta ai più, e lo fa con una scrittura raffinata e piena di grazia».

È un grande piacere per me accogliere questo suo prezioso elogio: sono essenzialmente le caratteristiche che anche io ho trovato nei suoi romanzi, insieme a una grande affinità di scrittura e alla volontà di sondare le emozioni umane. Sono proprio le emozioni a creare le storie.

Le copertine dei libri sono un indispensabile strumento di presentazione della storia narrata. Come è nata la cover di questo romanzo?

Possiamo dire che è una copertina simbolica, nel libro le mani sono un elemento significativo – sono nominate già nel prologo. Le piccole mani del bimbo nell’immagine trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo sono il simbolo della fatica e del lavoro dei bambini di Svevia. Il papavero è il fiore dell’oblio, della dimenticanza, senza tralasciare il fatto che cresceva e cresce ancora prosperoso nelle campagne della Svevia. Attraverso i papaveri e la loro presenza “solitaria” nelle distese di campi di grano è come se le storie dei singoli bambini (ora un misero numero nell’archivio digitale di Ravensburg) volessero essere raccolte per trovare un’altra voce che le potesse raccontare.

 

Diversamente dai tuoi precedenti scritti in questo romanzo l’Arte, la storia dell’arte, non è il motivo ispiratore della storia. Possiamo, però, ritrovarla in qualche misura?

In realtà, anche in questo libro l’arte è presente, ma non intesa come storia dell’arte, di quadri e di artisti. Per me è Edna l’artista suprema nella sua arte di vivere: lo è per il solo fatto di essere una persona comune che a un certo punto della sua esistenza decide di prendersi una rivincita, anche se può sembrare folle.

Parlando ora un po’ di te, sappiamo che vieni dall’Alto Adige, sei nata e cresciuta a Merano. Il confine, la multiculturalità e la terra di appartenenza (quello che in tedesco è reso in maniera esemplare dal termine Heimat) sono elementi che affronti a più riprese nel tuo libro. Che significato ha per te il luogo delle proprie origini?

Provo un amore viscerale e un fortissimo senso di appartenenza al territorio, sono orgogliosa delle mie origini. Tanto è vero che, benché dopo la laurea avessi avuto la concreta possibilità di proseguire gli studi con un dottorato di ricerca, prese il sopravvento la voglia di tornare a Merano per non rimanere ancora lontana da casa. E poi, in fondo, non mi piaceva troppo l’idea di passare tutta la vita a parlare di storia greca… desideravo conoscere e insegnare tutte le storie possibili. Per questo sono diventata insegnante. L’Alto Adige-Südtirol, infatti, è una terra antica e di confine, con una Storia e tante piccole storie comuni poco conosciute e comprese, spesso segnate da fratture e scontri. Ritengo che riappropriarsi della propria memoria storica, indagando cause e conseguenze della diversità, sia fondamentale per conoscerla e apprezzarla in toto. Da parte mia cerco di farlo attraverso la scrittura e l’insegnamento. Non bisogna poi dimenticare che, nonostante tutto, tre comunità (tedesca, italiana e ladina) convivono qui da secoli: tre comunità che alla fine sono uno stesso Io. Io stessa provengo da una famiglia mistilingue – questo significa avere i genitori appartenenti a due gruppi linguistici, nel mio caso italiano da parte di padre e tedesco da parte materna. Le tradizioni e i racconti tramandati in famiglia mi aiutano a dare vita a nuovi personaggi, di certo sono anche stimolata dalla natura e dagli animali che mi circondano: vivo ogni giorno immersa in paesaggi meravigliosi – Edna, Emil e Jacob nascono da lì, portano con loro i colori della mia terra, la sua bellezza, la sua asprezza.

Considerata la tua professione e i numerosi impegni che questa richiede, siamo proprio curiosi di capire come si svolge una tua giornata tipo: quando trovi il tempo per scrivere?

È vero, non è semplice, ma quando una storia è ormai dentro di me ho l’assoluto bisogno di scriverla. D’estate adoro scrivere in montagna, in mezzo alla natura; di solito, però, mi ci dedico al mattino molto presto prima di andare a scuola. Correggo ciò che ho scritto nel pomeriggio, mentre di sera faccio prove di ideazione che metterò per iscritto la mattina successiva. Il processo di ideazione, ricerca, documentazione e scrittura è molto intenso, dura per me dai tre ai sei mesi. È un vero e proprio impegno, lo considero un lavoro. Difficilmente rileggo, non mi piace: voglio mettere un filtro tra le mie emozioni e quello che va scritto, deve rimanere tale. Segue poi una naturale fase di riposo e di stacco, ma molto presto arrivano nuove idee, altre ispirazioni… e tutto ricomincia! A volte, infatti, il momento di pubblicazione e promozione di un libro coincide con l’attività di editing e correzione di un’altra storia. Anche perché è bene tenere presente che oggi il processo della filiera editoriale è molto lungo, non c’è solo la fase di scrittura ma anche quella di editing, marketing, promozione… C’è spesso una differenza tangibile tra il tempo della genesi di nuovi testi e la loro pubblicazione effettiva.

Ed ora quali emozioni stai vivendo, hai già qualche altra storia in mente?

Ho intenzione di continuare a raccontare storie perché mi fa stare bene, ne ho già in mente qualcuna. Contemporaneamente proseguirò a fare il mio lavoro di insegnante, perché comunque senza le mie classi non sarebbe lo stesso: è proprio dalla realtà di ogni giorno che trovo nuove ispirazioni, mi permette di insegnare trasmettendo il cuore della storia, il cuore dell’umano. Con il libro che ho scritto mi sento a posto, l’ho sondato e vissuto totalmente: la tensione e l’agitazione che mi hanno accompagnata durante la scrittura sono ormai calate ed esaurite. Mi sento in pace e sollevata, carica ed entusiasta per i nuovi viaggi che il romanzo farà. Questo romanzo non è più mio, ma sarà un’Edna per tutti: sono curiosa di sapere quante Edna ritorneranno a me attraverso lo sguardo dei lettori e delle lettrici. Ora la storia vive!

 

Ringrazio di cuore Romina per tutto ciò che mi ha raccontato e trasmesso. Grazie anche a Garzanti – nella persona di Giulia Marzetti – per aver accolto con entusiasmo e generosità questo dialogo tra Storia, letteratura e memoria.

 

Romina Casagrande
I bambini di Svevia
Milano, Garzanti, 2020
pp. 400