I turchi in Italia: l’assedio di Otranto del 1480

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Pierluigi Papa, Bari –

Era il 27 luglio 1480 quando una città, situata sulla costa adriatica dell’odierna Puglia, di nome Otranto vide una flotta straniera, in lontananza, occupare il canale.

Essa salperà nei pressi dei Laghi Alimini, a sei chilometri a nord della città salentina, in una località conosciuta come Baia dei Turchi perché la flotta straniera era appartenente all’Impero ottomano, un impero in ascesa.

Gli idruntini, alla vista della flotta, non avevano una minima idea che da quel giorno si sarebbero scritte delle pagine di storia, le quali saranno raccontate ai posteri, perché storia sarebbe diventato l’assedio subito dalla città.

 

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L’ascesa ottomana

L’Anatolia, dopo aver visto nell’XI secolo la dominazione selgiuchida, si era andata sgretolando nel giro di due secoli, in un largo numero di beilicati, emirati turco-musulmani, guidati da un signore, detto il bey. Tra questi, vi era quello degli Ottomani o degli Osmanli, situato a nord-ovest della regione, governato da Osman I Gazi (1258-1324), divenuto bey nel 1280 per via della morte del padre Ertuğrul.

A partire da Osman, il beilicato ottomano adottò una politica espansionistica, conquistando nel giro di un secolo, l’intera regione dell’Anatolia e parte della penisola balcanica, nonostante il rischio di svanire questo progetto per l’invasione di un mongolo di religione islamica di Timur-i-Lenk, noto come Tamerlano (1336-1405).

Nel 1451, un sultano ambizioso salì sul trono turco, di nome Mehmet II, in italiano Maometto II (1432-1481). Maometto II aveva dei grandiosi progetti, tra cui la conquista di Costantinopoli, capitale dell’impero bizantino. Il 2 aprile 1453 iniziò l’assedio alla città. All’epoca, le mura della città erano considerate inespugnabili ma fino a quando crollarono il 29 maggio 1453, permettendo a Maometto II di entrare in città e conquistarla. Da quel momento sarà conosciuto come il fatih, il conquistatore e come Qaysar-ı Rum, Cesare dei Romei.

La campagna espansionistica non si fermò ma proseguì con la conquista del Caucaso, delle isole del mar Egeo e della Grecia ma il fatih non si accontentò, mettendo gli occhi sull’isola di Rodi, distante circa diciotto chilometri dalle coste turche, controllata dal 1309 dai Cavalieri di San Giovanni, in latino Fratres Hospitalis Sancti Johannis in Jerusalem, un ordine monastico-cavalleresco fondato a Gerusalemme nell’ XI secolo.

Il sultano affidò il comando a Mesih Pascià, uomo di cui si sostiene che fosse un discendente della famiglia imperiale bizantina dei Paleologo, i quali governarono l’impero dalla seconda metà del XII fino alla caduta di Costantinopoli. La difesa tenace dei giovanniti, comandati dal Gran Maestro dell’Ordine, il francese Pierre d’Aubusson (1423-1503) ebbe la meglio sull’esercito turco.

I turchi, però, non combatterono soltanto a Rodi ma stavano iniziando ad attuare il piano per la conquista di Otranto.

 

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Veduta di Otranto da carta aragonese del XVI secolo

 

L’assedio di Otranto

Otranto era situata nel Regno di Napoli, governato dal re Ferdinando d’Aragona (1424-1494), detto Ferrante, nella giurisdizione della Terra d’Otranto, una divisione amministrativa comprendente le attuali province di Lecce, Taranto, Brindisi, ad eccezione di Cisternino e di Fasano e fino al 1661, Matera.

Ciò che gli idruntini non sapevano è che Maometto II aveva affidato il comando della spedizione ad Ahmed Pascià, noto come Gedik, lo sdentato. Ahmed Pascià fece un importante carriera politica, ricoprendo il prestigioso ruolo di gran visir, primo ministro dell’impero, tra la fine del 1473 e gli inizi del 1474 fino al 1476 per via delle divergenze con Maometto II, tant’è vero che venne rinchiuso nella fortezza-prigione di Rumeli Hisari. Dopo qualche anno venne scarcerato, divenendo sanjak, sangiacco, cioè governatore del distretto di Salonicco e successivamente di Valona, in Albania.

Fu proprio Valona il luogo da dove partì la spedizione con la flotta, composta da centocinquanta navi, oltrepassando di notte il Canale d’Otranto per sbarcare all’alba sulla costa pugliese. La spedizione era pianificata dettagliatamente da mesi come si può notare dalla scelta del luogo di sbarco, i Laghi Alimini, in quanto indifeso, dotato di fonti naturali e ideale per il facile trasferimento delle truppe.

Il primo gruppo di sbarco era composto da circa diecimila uomini tra giannizzeri, la fanteria dell’esercito turco, e cavalieri pesanti. Oltre alle truppe, portarono sette bombarde, cataste di spingarde a cavalletto, targoni e pesanti archibugi alti. Il secondo gruppo era composto da circa cinquemila uomini, arrivando complessivamente a quindicimila.

I circa cinquemila idruntini, alla vista della flotta, si rifugiarono dentro il perimetro cittadino, difeso dal capitano Francesco Zurlo ma le strutture difensive non erano adeguate a fronteggiare un attacco di tali proporzioni, a causa della cinta muraria risalente all’XI secolo, del castello di epoca federiciana, che si elevava a picco sugli scogli, venne indebolito dalla salsedine, danneggiando il tufo carpato e anche dall’erosione marina, intaccando le fondamenta, infine alcune delle torri, collegate dal muro di cortina, erano sotto la minaccia di un imminente crollo.

Oltre a questo, la città era difesa dai suoi stessi abitanti, i quali non erano soldati di professione ma dei semplici pescatori, marinai, artigiani mentre il capitano Zurlo aveva un striminzito e imprecisato numero di mercenari a propria disposizione.

Appena sbarcati, i turchi mandarono in perlustrazione alcuni uomini verso le località di Frassanito e Fontanelle, a nord dal luogo di sbarco. Essi fronteggiarono una squadra di cavalleggeri aragonesi, inviati per verificare l’identità della minaccia turca, perdendo lo scontro. Così questa squadra verificò la reale situazione e tornò in città per informare.

 

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Successivamente, accerchiarono la città tagliando uliveti e agrumeti, scavarono delle fosse e dei steccati, per sistemare delle pelli d’animali per attutire il fuoco dei difensori e assunsero il controllo del mulino a vento, a sud-est della città, con l’intento di ridurre l’approvvigionamento idrico.

Nel frattempo, due messaggeri partirono in direzione di Brindisi e di Napoli per chiedere rinforzi al giustiziere, l’arcivescovo Francesco de Arenis, e allo stesso re. La risposta del re giunse in città, rassicurando che avrebbe inviato dei rinforzi ma il grosso dell’esercito era impegnato nelle guerre toscane contro Firenze. Nonostante ciò, gli abitanti decisero di difendere la città “con le unghie e con i denti”.

Lo Sdentato, conoscendo la situazione dei difensori, avanzò una proposta di resa ma soprattutto avrebbe salvato la vita e tutelato i beni di coloro che si sarebbero sottomessi in maniera spontanea, senza alcuna implicazione religiosa, pagando la jizia, un’imposta di capitazione. La proposta venne rifiutata, rispondendo con un colpo di bombarda, atteggiamento non apprezzato dai turchi, in quanto le ambascerie, le tregue e le richieste di trattative erano considerate sacre.

Il 9 agosto ci fu un duro scontro tra gli idruntini e i turchi, causando la morte di duecento abitanti tra cui i nobili Angelo Maiorano, a capo di cinquanta fanti provvisti di elmo, i celati, e Michele Leondario, membro di una famiglia originaria di Costantinopoli.

Il 10 agosto i turchi occuparono, momentaneamente, una delle torri della città, causando un bilancio di cento morti tra le file idruntine e trecento tra quelle turche.

L’attacco decisivo avvenne l’11 agosto quando i turchi si concentrarono sul muro di cortina del castello, causando una breccia di enormi dimensioni ed entrarono. Le milizie aragonesi tentarono di difendere il varco ma vennero sopraffatte dall’ondata turca, tra questi perirono il capitano Francesco Zurlo e il suo braccio destro Giovanni Antonio dei Falconi.

Con la guarnigione aragonese fuori dai giochi, il compito di difendere Otranto spettò ai suoi stessi abitanti, i quali la difesero come meglio potevano contro uomini addestrati al combattimento.

Il sagrato della Cattedrale, danneggiato dai bombardamenti, divenne l’ultima area difensiva della città ma prima che si levasse il sole, furono costretti a cercare riparo dentro l’edificio, quando l’arcivescovo di Otranto, Stefano Agricoli imbandiva il corpo di Cristo per l’Eucarestia.

I turchi entrarono in chiesa, uccisero l’arcivescovo, mozzandogli e infilandola su una lancia, portandola in giro per le vie cittadine. Molti abitanti furono uccisi, la Cattedrale e il palazzo arcivescovile saccheggiati, i fanciulli, le ragazze più belle e gli adolescenti furono presi come schiavi e trasferiti nella capitale turca. Le schiave rimaste in città dovevano sfornare il pane, giorno e notte, per conto dei conquistatori mentre una ventina di uomini facoltosi pagarono il riscatto per potersi salvare.

Dopo qualche giorno, un destino atroce stava per incombere su ottocento uomini, scortati dai soldati turchi in un luogo, conosciuto come Colle della Minerva, nella parte meridionale della città, pronti a essere decapitati. Era il 14 agosto 1480, la memoria di questi ottocento uomini saranno ricordati dai posteri come i Martiri di Otranto.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • Bianchi, Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista, Bari, Laterza, 2017;
  • J. Norwich, Bisanzio, Milano, Mondadori, 2000;
  • Runciman, La caduta di Costantinopoli 1453, Milano, Feltrinelli, 1968;
  • J. Shaw, traduzione di A. Bombaci, L’Impero ottomano, Utet, Torino 1980;
  • Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione, Milano, Sansoni, 2000;