Vincere o morire. Onore e pietas dei vinti in guerra: “L’arte della resa” di Holger Afflerbach

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Giuseppe Catterin, Venezia –

 

Τέκνον, ἢ τὰν ἢ ἐπὶ τᾶς
(Figlio mio, o con questo o sopra questo)

 

Stando alla tradizione, queste furono le raccomandazioni che una madre spartana indirizzò al figlio partente per la guerra. Parole che, nella loro genuina natura laconica, incarnano perfettamente l’etica guerriera degli Spartiati: addestrati fin dalla tenera età ad affrontare uno stile di vita improntato alla guerra, il pensiero della resa rappresentava un concetto inimmaginabile per questi leggendari professionisti dell’arte bellica. Concetto che, come narrato dallo stesso Erodoto, era tenuto sommamente in considerazione lungo le sponde dell’Eurota, come si può comprendere dalla seguente notizia da lui tramandataci. Stando allo storico greco, Pantite e Aristodemo furono gli unici dei Trecento guidati da Leonida che sopravvissero alle Termopili.

Il primo, controparte spartana dell’ateniese Filippide, evitò lo scontrò perché assente: venne inviato dal re in Tessaglia, in qualità di ambasciatore. Il secondo, invece, fu esonerato, assieme ad un tal Eurito, da Leonida in persona: entrambi erano stati colpiti da una patologia agli occhi, che li rese momentaneamente inidonei alle armi. Eurito, seppur privato della vista, decise di affrontare lo stesso morte, in pieno ossequio alle antiche leggi apprese sul Taigeto. La scelta, come si può immaginare, relegò il commilitone all’infamia. Sebbene caduto combattendo presso Platea, il coraggio dimostrato da Aristodemo venne duramente stigmatizzato. Alla hybris delle Termopili, aggiunse l’imperdonabile errore, forse perché spinto dalla volontà di riscattarsi agli occhi dei suoi pari, di rompere la formazione, la cui sacralità era il massimo dei valori nella guerra oplitica.

Esempi che ci aiutano a comprendere lo stupore che si diffuse lungo tutta l’Ellade alla notizia della resa avvenuta presso Sfacteria. Qui, brullo isolotto al largo del Peloponneso occidentale, 120 sparitati decisero, nel 425 a.C., di compiere un atto tanto inaudito, quanto squisitamente umano: arrendersi agli Ateniesi.

Ed è proprio sulla resa, protagonista troppo spesso negletta del fecondo filone della storia militare, sulla quale lo storico tedesco Holger Afflerbach si sofferma nel suo L’arte della Resa. Storia della Capitolazione (Il Mulino, 2015). Se ci pensiamo bene, l’arrendersi costituisce un’azione diffusamente presente nel quotidiano di molti – se non addirittura, di ciascuno – di noi. Forme di capitolazione, seppur mediate da una sorprendente varietà di fattori, si possono riscontrare, ad esempio, nelle attività ricreative dei bambini.

 

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A nascondino, ad esempio, una piena e completa vittoria viene sancita solamente alla cattura di tutti i componenti della squadra avversaria. Cattura che, seppur inconsapevolmente, trae i suoi principi fondanti sulla regolamentazione dello status di “prigioniero”. Vale a dire, serie di norme finalizzate a indicare un giocatore momentaneamente tagliato fuori dal gioco. Il prigioniero, così come in guerra, viene privato dalla possibilità di concorrere con tutte le sue molteplici abilità (come, ad esempio, la velocità, o, ancora, la conoscenza dei luoghi migliori ove celarsi agli occhi del “nemico” e da cui pianificare le strategie migliori) al conseguimento dell’affermazione della squadra d’appartenenza.

Certo, ai perdenti può rimanere la consapevolezza d’aver gareggiato, parziale lenitivo al gusto amaro della sconfitta. Di essersi, insomma, battuti strenuamente, conquistandosi il diritto della sconfitta onorevole. Concetto che, tuttavia, in campo bellico fu sempre tutto fuorché scontato. Anzi, lungo la storia, sulla sorte degli sconfitti riecheggiò a lungo il monito proferito da Brenno: Vae Victis, guai ai vinti, quasi a rimarcare ulteriormente la condizione degli sconfitti, sventurati esposti alla piena e totale mercé del vincitore.

La resa fu, quindi, da sempre un momento molto delicato. Al contempo, simbolizza anche un aspetto profondamente umano che, come tale, ha registrato una costante evoluzione nel corso dei secoli: ai giorni nostri passare a fil di spada un esercito sconfitto, nonostante la sua accanita resistenza, verrebbe fermamente condannato dall’opinione pubblica.

 

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Prigionieri italiani dopo la battaglia di El Alamein nel 1942

 

Ed è proprio a tale percorso, a questa progressiva evoluzione che ha coniato una vera e propria “arte della resa”, che Holger Afflerbach, docente di Storia dell’Europa centrale all’Università di Leeds, rivolge tutta la sua attenzione grazie a una indagine storica capace di spaziare dai primordi del genere umano ai drammi dell’Età contemporanea.

Dalle prime ed embrionali convenzioni “universali”, come ad esempio risparmiare una città o una popolazione che si erano preventivamente arrese, la resa e, conseguentemente, lo status di prigioniero sono andati contro una costante evoluzione, lungo un perenne cammino di codificazione che, nonostante gli attuali organismi internazionali, risulta tutt’ora lungi dall’essere completamente esaurita.

Ne esce un viaggio a ritroso nel tempo che, partendo dall’età della pietra, porta il lettore alla riscoperta della vasta trattatistica riservata, da tempi immemori, alla resa e alla capitolazione in tutte le loro più differenti manifestazioni: dalla poliorcetica, come si può scorgere nel Deuteronomio, passando all’etica cavalleresca, senza tralasciare una interessante digressione sull’analisi del codice tipico della guerra sui mari.

 

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Analisi che, focalizzandosi in un punto di vista prevalentemente eurocentrico (aspetto in cui difetta l’indagine), contribuisce a evidenziare lo sviluppo di una progressiva umanizzazione della guerra. Quello che, a un primo sguardo, può risultare un ossimoro, cela in realtà un radicale cambiamento negli orizzonti culturali del soldato.

La pietà del vinto, manifestazione di una forma di etica prerogativa unicamente di alcune classi sociali (basti pensare al cavaliere medievale, o all’ufficiale del Settecento), con il passare dei secoli venne estesa agli eserciti degli stati europei, divenendo un valore, come dimostrato Holger Afflerbach, universalmente accettato grazie, in taluni casi, a motivazione di natura squisitamente economica o eminentemente pratica: un soldato sconfitto poteva valere molto di più da prigioniero che da nemico, magari caduto combattendo, disperatamente, fino all’ultima pallottola.

 

Holger Afflerbach
L’arte della resa. Storia della Capitolazione
Bologna, Il Mulino, 2015
pp. 296