Il mondo dietro alla maschera: Anonymous for the Voiceless

Anonymous for the Voiceless, ambiente, vegan, editoriale, attualità

Giulia Barison, Venezia –

Vi è mai capitato, passeggiando per una città, di imbattervi in un gruppo di persone disposte a cubo, vestite di nero, con il volto coperto da una maschera di Guy Fawkes, che reggono degli schermi su cui vengono proiettati video relativi allo sfruttamento animale? Si tratta di una realtà sempre più diffusa e conosciuta come Anonymous for the Voiceless (d’ora in poi AV). Fondata tre anni fa in Australia da Paul Bashir e Asal Alamdari, l’organizzazione ebbe un successo immediato: nel giro di due mesi erano già stati costituiti 25 chapters, luoghi in cui gli eventi di AV vengono organizzati almeno una volta al mese. Oggi si contano all’incirca 1.000 chapters e 15.000 eventi in tutto il mondo. Ma che cos’è AV? AV è un’organizzazione non a scopo di lucro che ha come finalità la sensibilizzazione a uno stile di vita etico, basato sulla soppressione delle ingiustizie perpetrate nei confronti degli animali.

Tre sabati fa ho deciso di partecipare a un Cube of Truth, un ‘cubo della verità’, così chiamato perché gli attivisti si dispongono a forma di cubo durante la manifestazione. Ho impiegato tre settimane per decidermi a scriverne: vegani e animalisti vengono spesso denigrati preventivamente, come se ci fosse qualcosa di sbagliato ed estremista nella loro scelta di non commettere violenza contro gli animali. Mi è capitato, in passato, di tenere qualche banchetto informativo con associazioni animaliste e quasi quotidianamente mi confronto verbalmente con prevenuti e curiosi: manca sempre qualcosa, per qualche motivo il messaggio non riesce a toccare davvero la sfera emotiva e la coscienza delle persone. Mentre vedo sfilare davanti ai miei occhi immagini di cuccioli di maiale schiacciati dal peso della loro stessa madre malata e stremata, di pulcini tritati vivi, di vitelli strappati alle rispettive madri e sgozzati, mi sento dire che è giusto così e che è sempre stato così. Ma non è vero. Innanzitutto non è vero che è sempre stato così: anche se la violenza non è di certo una scoperta recente nella storia dell’uomo, lo sfruttamento animale declinato nei termini attuali è qualcosa che non è mai stato conosciuto prima. Ma, soprattutto, non è vero che è giusto così. E in questo AV ci ha fregati, perché non lo sto dicendo io, ma lo state dicendo voi stessi.

 

Anonymous for the Voiceless, ambiente, vegan, editoriale, attualità

 

Sabato 29 giugno ero in via dei Calzaiuoli a Firenze, una delle vie principali della città. Faceva molto caldo. Completamente vestita di nero, ho infilato le bretelle che reggevano lo schermo e ho fatto calare la maschera sul viso. Dietro di me c’erano altre tre persone, vestite nello stesso modo, immobili. Il mio ruolo era quello di rimanere lì, ferma, in silenzio, quasi fossi una guardia inglese. Se qualche passante avesse voluto comunicare con me, avrei dovuto alzare una mano: solo i volontari esterni al cubo sono autorizzati a parlare. Se avessi avuto bisogno di qualsiasi cosa, avrei dovuto alzare una mano: uno dei volontari esterni al cubo sarebbe venuto a sostituirmi. Sotto a quella maschera in plastica non si respirava. Le gocce di sudore scorrevano lente sulla fronte e cadevano negli occhi, mescolandosi alle lacrime, o almeno a quella che era un’incredibile voglia di piangere. Non volevo piangere per il caldo, né tantomeno per la fatica: volevo piangere per ciò che vedevo. Attraverso i due fori della maschera vedevo le reazioni dei passanti. Indipendentemente dalla provenienza, dal sesso e dall’età, le reazioni erano sempre le stesse: rabbia, tristezza, dolore. Ecco cosa mancava quando mi limitavo a parlare: le immagini. Il principio attivo di AV sono proprio le immagini e, solo in un secondo momento, solo se il passante dimostra interesse, allora si può approfondire il discorso con i volontari.

È stato curioso: tra le centinaia di passanti, nemmeno uno ha fatto battute, si è messo a ridere o ci ha etichettati come estremisti. Perché? L’analisi di un simile comportamento richiederebbe molte più parole rispetto a quelle concesse da un articolo, ma vale comunque la pena soffermarvisi, seppur velocemente. Perché? Perché AV non lascia via di scampo. Non ci permette di non creare una connessione tra la bistecca e il suo processo di produzione. Non ci permette di nasconderci dietro alle parole. Non ci permette di non vedere. Quelle immagini, nonostante rappresentino la quotidianità dell’industria zootecnica, quella che potremmo chiamare la “normalità”, fanno male a tutti. La maggior parte di noi non vuole confrontarsi con quanto accade negli allevamenti, nei laboratori e in tutti quei luoghi atti allo sfruttamento animale, non tanto perché non sia sensibile al tema, quanto perché non vuole sapere.

 

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La verità e che non ci piace quello che facciamo agli animali per il mero gusto di addentare un pezzo di carne o di indossare un paio di scarpe in pelle. La verità è che noi non lo faremmo mai con le nostre mani: c’è chi lo fa per noi. Ma lo sapete che nessuno ormai vuole più farlo? E sapete questo cosa comporta? Chi lo fa è chi non ha altra scelta: immigrati, soprattutto. Immigrati che di storie tristi già ne avranno abbastanza alle loro spalle e che sono invece costretti a inserirsi in un circuito di violenza normalizzata: un circuito che crea aggressività, instabilità psichica, depressione e il cosiddetto stress post-traumatico indotto dalla perpetrazione (PITS). Le testimonianze dei macellai sono diverse, a partire da quelle riportate nel celebre Se niente importa di Jonathan Safran Foer. In Slaughterhouse di Gail Eisnitz si legge la testimonianza di Ed Van Winkle:

 

«Certi maiali in mattatoio mi vengono vicino e mi strofinano il muso contro come fossero dei cuccioli. Due minuti dopo li devo ammazzare a suon di sprangate. Questi maiali finiscono nella cisterna bollente e quando toccano l’acqua cominciano ad urlare e a scalciare. A volte si agitano talmente tanto da schizzare l’acqua fuori dalla cisterna, prima o poi muoiono affogati. C’è un braccio rotante che li spinge in basso, non hanno modo di uscire fuori. Non sono sicuro se muoiano prima affogati o prima ustionati, ma ci mettono qualche minuto per smettere di dimenarsi».

 

Virgil Butler, un ex macellaio diventato poi attivista per i diritti animali (e non è l’unico caso), spiega: «Sei solo, sai che sei diverso dalla maggior parte delle persone. Loro non hanno orribili visioni di morte nelle loro teste, non hanno visto quello che hai visto tu e neppure lo vogliono sapere, non ne vogliono sentire parlare. Se lo facessero come farebbero a mangiare quel pezzo di pollo, dopo?». Quindi sì, c’è chi fa questo lavoro per noi, ma a che prezzo?

 

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Jonathan Safran Foer

 

Vale la pena aggiungere altri due dati. È ormai risaputo che consumare prodotti animali non è una scelta salutare. Non è un caso che le diete più salutari, come ad esempio la nostra stessa dieta mediterranea, hanno come alimenti base quelli di origine vegetale. Inoltre, l’industria zootecnica è una delle più impattanti a livello ambientale: uno studio dell’Università di Oxford dell’anno scorso ha stimato che la dieta vegetale riduce le emissioni alimentari (gas serra, acidificanti ed eutrofizzanti) fino al 73% e lo spreco di acqua a un quarto.

Ma torniamo ai passanti a Firenze, alle loro espressioni. Ho letto chiaramente, attraverso quei due fori, la disperazione, lo stato di shock, il disgusto, il senso di impotenza: li ho letti perché li conosco molto bene. Ho avuto modo di parlare con loro: per una volta mi sono sentita dire che non è giusto. Alla fine della manifestazione abbiamo stimato che 37 persone sono tornate a casa con l’esigenza di informarsi e cambiare alcune delle proprie abitudini. AV stima che negli ultimi tre anni 500.000 persone sono state sensibilizzate alla causa animalista grazie ai suoi cubes of truth.

Anche io sono tornata a casa con qualcosa. Sicuramente con l’adrenalina dovuta alla consapevolezza di aver contribuito con modesto successo a una causa importantissima insieme a un bellissimo gruppo di attivisti. Sicuramente con il senso di nausea e di disperazione che suscitano in me quelle immagini ogni volta che le vedo. Ma anche con molta rabbia. Perché ci ostiniamo a porci come mandanti di questa violenza gratuita? Una violenza che non viene perpetrata solo nei confronti degli animali. È una violenza che viene commessa contro gli esseri umani: contro coloro che lavorano nei macelli, contro noi stessi, che continuiamo a ingurgitare veleno, e contro l’intera umanità, che sta pagando con la sua stessa vita gli effetti provocati dall’industria zootecnica sull’ambiente. È una violenza che viene perpetrata nei confronti del nostro stesso pianeta. Abbiamo la presunzione di essere la specie superiore, ma la verità è che nessun’altro è riuscito ad auto-boicottarsi come abbiamo fatti noi, a spese di tutto e di tutti. Che senso ha? Perché accade? Sono domande che mi pongo ogni giorno e che, dopo questa manifestazione con AV, mi pongo con ancora maggiore frustrazione. È il 2019, il XXI secolo, a fronte di scoperte tecnologiche e scientifiche di enorme portata, a fronte di un’evoluzione che ci ha portato a mettere in discussione le ingiustizie, il mancato rispetto dei diritti civili, la figura dell’emarginato (pur nella consapevolezza che vi è ancora molto lavoro da fare su questo fronte) – com’è possibile che nel giro di qualche decennio siamo arrivati a tanto?

Lo so, di solito gli articoli raccontano qualcosa, si pongono come obiettivo il raggiungimento di una qualche conclusione, di una qualche soluzione: mi rendo conto che questo articolo si compone di una serie di domande disperate, ma non rimane molto altro. D’altronde la soluzione è palese ai più, ma solo una parte irrisoria della popolazione agisce di conseguenza. E quella parte irrisoria non salverà il mondo, ci sta solo provando.

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