Alessandro e i barbari: cittadini, stranieri e integrazione etnica sotto il suo impero

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Camilla Longhi, Milano –

Il tema dell’immigrazione e dell’integrazione dello straniero è fortemente attuale e si è presentato più volte nel corso della storia dell’uomo, che l’ha affrontato in maniera diversa in base alle epoche storiche e alle circostanze politiche. Nel 336 a. C. Alessandro Magno, divenuto re del popolo macedone in seguito alla morte del padre Filippo, si trovò a fare i conti con questa tematica nell’ottica del suo sogno di realizzare un impero universale che unisse Greci e Asiatici sotto la sua unica egemonia.

A questo scopo egli promosse una spedizione in Asia nel 334 a. C., cui parteciparono soldati Greci e barbari (Traci, Peoni, Triballi, Agriani), accompagnati da geografi, naturalisti, interpreti, tipografi e storici; la propaganda ufficiale giustificò la spedizione in chiave panellenica, come una guerra di vendetta contro i Persiani che avevano invaso l’Ellade nel 481 a. C. In realtà quello di Alessandro era un progetto di ben più ampio respiro, quello di imporre, senza distinzione fra i popoli, una monarchia universale che per altro, a causa della dimensione divina introdottavi, tradiva sia i valori della tradizione macedone, sia quelli della polis greca. Alessandro infatti, dopo avere più volte sconfitto le truppe del re persiano Dario III, cominciò ad adottare alla sua corte alcuni costumi orientali tra cui la proskynesis, un profondo inchino accompagnato da un accenno di bacio, che per il costume greco-macedone simboleggiava la concessione di onori divini, e che venne fortemente criticata dallo storico Callistene di Olinto e da altri compagni di Alessandro.

 

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Già questa vicenda mette in evidenza la difficoltà di integrare due visioni, in questo caso circa la regalità, completamente diverse: quella macedone, che vedeva il sovrano come il migliore dei suoi pari, e quella orientale, che poneva il sovrano in una dimensione quasi sovrumana, accostandolo al divino. Le differenze fra i Greci e i Persiani continuarono a emergere man mano che la spedizione di Alessandro proseguiva, nonostante egli avesse tentato più volte di dare un chiaro segnale della sua volontà di fare coesistere e mettere sullo stesso piano tutte le diverse nazionalità presenti nell’immenso regno sottratto agli Achemenidi. Allo scopo di creare un’aristocrazia mista, che comprendesse elementi greco-macedoni e asiatici considerati alla pari di fronte al sovrano, Alessandro organizzò nel 324 a. C. le cosiddette “nozze di Susa”, occasione in cui ottanta suoi compagni e diecimila soldati del suo esercito presero in moglie donne persiane. Lui stesso sposò la figlia di Dario, Statira, e la figlia di Artaserse III, Parisatide.

Non è da dimenticare che il re macedone, in seguito alla conquista della satrapia orientale della Sogdiana del 329-327 a. C., aveva già preso in sposa Rossane, figlia del satrapo sconfitto Ossiarte, scelta che Plutarco (Vita di Alessandro, 47, 7) ritenne «fatta per amore», ma che anche «parve adattarsi perfettamente alla sua posizione politica», in quanto avvicinò Alessandro ai barbari ma, di conseguenza, provocò il malcontento dei suoi compagni, preoccupati fin da allora per l’accoglienza che il sovrano riservava ai costumi stranieri. Anche in seguito agli eventi di Susa il problema del rapporto fra le nazionalità si manifestò drammaticamente e, inasprito da una decisione del sovrano circa la sua armata, sfociò nella rivolta di Opis, nei pressi del fiume Tigri. Alessandro, con le sue brillanti abilità di oratore, riuscì a placare gli animi dei suoi soldati, senza però rinunciare a punire i responsabili e, una volta risanata la situazione, celebrò sacrifici «per la concordia e la comunanza del potere» fra Macedoni e Persiani (Arriano VII, 11, 9).

 

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Dettaglio del sarcofago di Alessandro, conservato a Istanbul

 

In quella occasione i soldati macedoni si erano sentiti offesi dalla decisione del re di congedare chi fra loro era veterano o invalido, a vantaggio dell’inserimento nell’esercito di elementi persiani, come se l’integrazione di alcuni stranieri al posto di chi non era completamente in grado di proseguire la spedizione potesse minare la loro stessa identità. Il timore che l’integrazione dello straniero possa togliere a chi già c’è, in questo caso i soldati di Alessandro, prestigio o valore, è una paura che spesso ancora oggi si manifesta sotto forma di rifiuto nelle popolazioni in cui si verificano fenomeni di immigrazione.

L’opera di Alessandro Magno si inserisce nel quadro di un profondo cambiamento del concetto stesso di polis, il cui significato originale entra in crisi alla fine del IV secolo; l’idea originaria di polis si era sviluppata a partire dall’VIII secolo e identificava una società politica basata sull’idea di cittadinanza, caratterizzata dalla coesistenza di una spiccata unità culturale, in senso etnico, linguistico, religioso e giuridico, e da un forte frazionamento politico, determinato dalla presenza di più di mille stati indipendenti, diversi per aspetto geografico, demografia e assetto urbanistico. Principio vitale della polis era il concetto di politeia, idea di costituzione fondata sulla nozione di nomos, legge, che costituiva il limite dell’arbitrio dei governanti.

In età ellenistica accanto a questo concetto si afferma quello di politeuma, a esso affine ma non completamente coincidente. Apparteneva al politeuma, infatti, chi poteva godere dei pieni diritti politici attivi e passivi, mentre chi apparteneva alla politeia conservava solo alcuni diritti di carattere politico, per esempio quello di votare in assemblea; ciò portò alla nascita di una nuova figura, che Aristotele aveva definito archomenos polites, ossia il cittadino che era tale benché non esercitasse i diritti politici nella loro pienezza o conservasse solo quelli civili. La questione del rapporto fra cittadini e stranieri in età ellenistica va dunque considerato nell’ottica dell’indebolimento della figura del cittadino e del progressivo affievolirsi dell’identità greca, che assume un carattere puramente culturale, come già notava Isocrate che, in un celebre passo del Panegirico, affermava che il nome di Grecia non indicava più «la razza (ghenos), ma la cultura (dianoia)» e che potevano essere chiamati Elleni gli uomini che partecipavano alla tradizione culturale greca piuttosto che coloro che ne condividevano l’origine etnica.

 

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È interessante notare come l’identità greca venga fatta coincidere con la cultura, quindi con qualcosa di acquisibile, e non con l’elemento etnico, concetto che potrebbe aprire uno spiraglio all’integrazione dello straniero. Si tratta senza dubbio di un passo avanti, ma occorre tenere presente che comunque la superiorità greca non viene completamente messa in discussione, e che quindi la differenza tra cittadini e stranieri è ancora marcata. È con Alessandro Magno e la sua politica che si può cominciare a parlare di integrazione e apertura, benché anch’egli non sia riuscito a realizzare appieno una solida fusione etnica e culturale fra i vari popoli che coesistevano nel suo impero.

Egli però favorì certamente l’affermarsi di una visione più aperta, che guardava all’uomo indipendentemente dalla sua identità etnica e culturale, anche grazie all’indebolirsi della separazione geografica fra Greci e barbari, che attraverso le spedizioni del sovrano e il fenomeno della colonizzazione cominciarono a entrare direttamente in contatto. Il fatto di essere tutti sudditi del medesimo sovrano metteva Greci, Macedoni e barbari sullo stesso piano e dunque, una volta morto Alessandro nel 323 a. C., l’elemento unificante venne meno e ciò rese più complicato il processo di integrazione fra i popoli, che venne affrontato in modi diversi nei vari regni ellenistici in cui l’impero si dissolse.

Si può dire dunque che il tentativo di realizzare un impero universale unito benché gravitante intorno alla Macedonia, fallì, ma l’idea di fusione etnica e le operazioni che Alessandro compì per realizzarla, hanno lasciato un’impronta nella storia del Mediterraneo orientale che, in età ellenistica, cambiò profondamente. La koiné linguistica e culturale e la condizione di sudditi in cui versavano, equipararono in qualche modo Greci e barbari e le città, in cui ora la funzione svolta e le relazioni con il potere contavano più della nascita e dell’appartenenza, si rivelarono un efficace luogo di integrazione.

 

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