476 d.C.: la caduta senza rumore di un impero

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Thomas Couture, I romani durante la decadenza dell’impero, 1847, Museo d’Orsay, Parigi

Lorenzo Domenis, Verona –

Poche date hanno avuto un impatto nella memoria collettiva come il 476 d.C., il momento in cui cadde l’Impero Romano d’Occidente, sancendo così la fine della gloriosa Antichità e l’arrivo dei secoli bui medievali.
Dal XVIII secolo in poi, sostiene Momigliano, noi occidentali siamo ossessionati da questo evento che ha assunto il significato di archetipo della decadenza e di conclusione netta. In realtà l’Impero Romano d’Occidente cadde senza fare rumore, senza segnare un prima e un dopo in maniera puntuale e drastica.

Nel mondo antico sorsero e caddero vari imperi, anche piuttosto repentinamente, e l’alternanza appariva come un fatto accettato e naturale. I Romani si interrogarono piuttosto presto riguardo la “senilità” del proprio Stato, anche se le prime vere riflessioni comparvero solo nel IV secolo d.C.
Nel 476 d.C. tuttavia mancò l’evento eclatante che avrebbe potuto scuotere la sensibilità dei contemporanei: non ci fu un sacco, nessuna netta sconfitta, nessun sovrano ucciso o deceduto improvvisamente, come era accaduto nel caso dell’impero di Alessandro Magno.

Thomas Cole, La Distruzione dell’Impero, 1836, Collection of The New-York Historical Society, New York

La situazione politica imperiale inoltre era tutt’altro che chiara, i rapporti tra Occidente e Oriente ancora poco definiti, il tutto reso meno tragico dal fatto che il giovane Romolo Augustolo, formalmente l’ultimo imperatore romano d’Occidente, venne inviato a vivere in Campania in una bella villa rustica: non ci fu quindi nessuna prigionia o violenza di qualsivoglia forma.
In sostanza, all’epoca il valore simbolico della cosiddetta “caduta dell’Impero” venne effettivamente avvertito oppure è una invenzione moderna? Il conte Marcellino, funzionario dell’impero d’Oriente, nel 519 d.C. sostenne che “l’Impero Romano d’Occidente perì con questo Romolo Augustolo”; anche Giordane, goto con una sensibilità filo-romana, riporta la stessa posizione riguardo la fine dell’impero in Occidente.

La comunanza di interpretazione potrebbe derivare da una prestigiosa fonte comune ossia l’aristocratico di classe senatoriale Memmio Simmaco, che assistette in prima persona alla deposizione di Romolo Augustolo.
Alcuni membri dell’aristocrazia romana, non accettando di buon grado il dominio del goto Teodorico, avrebbero potuto , quindi, conferire al 476 d.C. un valore più “drammatico” – come sostenuto dallo storico olandese Martin Wes – che sarebbe giunto fino a Giordane, il quale lavorava presso la corte di Giustiniano dove si stavano muovendo ideologie di restaurazione della pars occidentis dell’impero.
Un altro grande erudito del VI secolo d.C., Cassiodoro, dal canto suo, invece tace totalmente riguardo la deposizione di Romolo Augustolo. Egli, infatti, considerava Teodorico e il suo regno culturalmente misto come il naturale successore dell’Impero Romano d’Occidente che quindi, in qualche modo, non era affatto caduto nel fatidico 476 d.C. Appare evidente come Cassiodoro, sorvolando la questione della deposizione, serva gli interessi politici di Teodorico e il suo progetto di sincretismo goto-romano.
In Oriente, tra gli scrittori ed eruditi di formazione greca, la data del 476 d.C. viene citata piuttosto raramente e con una curiosa attenzione riguardo il nome di Romolo Augustolo.

Una miniatura raffigurante Cassiodoro

Continuando l’esame dei grandi eruditi del VI secolo si incontrano altri due importanti silenzi: Zosimo e Procopio. Zosimo, tra il 500 e il 515, fu il primo bizantino a scrivere della decadenza dell’impero senza lesinare in toni polemici; tuttavia il fatidico avvenimento non viene minimamente menzionato..
L’atteggiamento delle fonti si può quindi distinguere in relazione all’atteggiamento nei confronti dell’arrivo dei Germani nella società romana: alcuni tendono a minimizzarla, altri invece la esaltano come segno di rottura con il passato latino.

Nel quadro dell’analisi della caduta dell’impero romano d’Occidente non si può non trattare il ruolo politico e sociale che assunse via via la Chiesa – e con essa i suoi rappresentanti, in particolare i vescovi – soprattutto in alcune aree come la Gallia. Costanzo di Lione, autore della biografia di San Germano di Auxerre nonché amico di Sidonio Apollinare, compose la sua opera agiografica tra il 475 e il 485 d.C. nella quale viene evidenziato il ruolo di Germano nell’appianare le tensioni interne ai Romani, a causa delle continue divergenze dottrinali. Le guerre contro i Barbari, l’invasione della Gallia da parte delle temibili orde Unne guidate dal “Flagello di Dio” Attila e lo smembramento della provincia non vengono nemmeno citate; tutto resta sullo sfondo mentre le vicende di un tipico pastore d’anime di cultura romana vengono tramandante nel dettaglio.

Una pregiata edizione inglese della monumentale opera di Edward Gibbon, sul declino dell’Impero romano. L’opera originale fu pubblicata in sei volumi tra il 1776 e il 1789. Viene considerata la maggiore opera letteraria inglese del Settecento.

La tendenza opposta invece può essere riscontrata nel raffinato Sidonio Apollinare, ricco aristocratico gallo-romano, suocero di quell’imperatore Avito che arrivò al potere grazie all’appoggio dei Visigoti. Nel Panegirico di Vito il ruolo dei Visigoti nella sconfitta di Attila viene esaltato: essi appaiono come salvatori della Gallia nonché pronti ad aiutare Roma contro i Vandali nel Nord Africa. Nonostante questo atteggiamento collaborativo verso i Germani, Sidonio avvertì spesso e volentieri la necessità di proteggere la cultura latina e romana in opposizione ai barbari. Nel 475 divenne egli stesso un suddito del re visigoto Eurico, sebbene fosse diventato vescovo. E proprio in quei decenni, la Chiesa comincia ad incarnare l’unica resistenza della cultura romana contro le orde dei barbari ormai insediatisi in tutto il territorio gallico (e non solo), suggerendo ai suoi “colleghi” della nobiltà di intraprendere la carriera ecclesiastica con il preciso obbiettivo di salvare il proprio patrimonio culturale.

Un’altra tematica piuttosto diffusa negli scritti romani sin dal IV secolo d.C è la presenza di atteggiamenti nocivi nella società del tempo, come ad esempio la cupidigia e la tentazione che appaiono nemici più pericolosi rispetto ai barbari stessi. Questo atteggiamento porta con sé l’attesa di un miracolo, di un cambiamento capace di risolvere sia le debolezze interne sia le tensioni esterne.
Le reliquie cominciano a diffondersi sempre di più proprio in risposta a questa sensibilità: la gente comune cerca rifugio e protezione dal peccato e dal diavolo che si annida ovunque. Allo stesso modo si diffonde il culto dei Santi, figure che sostituiscono le numerose divinità protettrici del pantheon greco-romano e aiutano i fedeli nel momento del bisogno.

 

Miniatura raffigurante Teodorico e Odoacre combattenti a cavallo

L’Occidente si dimostra molto diverso dall’Oriente per quanto riguarda l’attività dei santi e degli uomini di Chiesa, basti pensare alla presenza di “santi soldati” nel contesto orientale mentre nel contesto occidentale troviamo una figura come quella di Martino di Tours, santo estremante venerato che scelse di abbandonare la carriera militare per seguire gli insegnamenti di Cristo.
In Oriente i monaci partecipano alla vita politica attivamente, in Occidente la via monastica è una alternativa alle faccende mondane alle quali è spesso nettamente contrapposta. In sintesi, se nella parte orientale dell’impero la religione rianima la vitalità dello stato, in quella occidentale la sostituisce.

La società cristiana cerca quindi nuovi valori attorno a cui radunarsi, oltre alla fede, alla lotta contro l’empietà e l’eresia, la stessa lingua latina diviene un elemento da contrappore al potere germanico, così come un tempo si contrapponeva alla lingua dei popoli vinti dalle legioni romani in Europa, Africa e Asia.
Il latino diviene ormai lingua cristiana, anzi cattolica, e porta con sé tutta l’eredità culturale pagana, che viene parzialmente accettata. L’Oriente non continuerà sulla strada della latinità, virando invece verso la cultura greca, soprattutto dopo il fallimento del sogno unitario di Giustiniano.
Inoltre il latino, non solo riesce a mantenersi vivo nei territori dell’ex impero d’Occidente, bensì raggiunge zone che i Romani non avevano mai toccato come per esempio l’Irlanda, dove giunse portata dai monaci e si affiancò alla tradizione linguistica e culturale celtica.

In conclusione, la fine dell’impero romano d’Occidente fu un crollo fragoroso oppure non produsse alcun rumore? Nel concreto, per gli abitanti della penisola italiana, cambiò poco o nulla; tra gli eruditi del V secolo non vi è una posizione condivisa, in quanto gli interessi personali, la religiosità e l’appartenenza alla parte occidentale o orientale generano posizioni e sensibilità divergenti rispetto alla fatidica data del 476 d.C. Una cosa è certa: la caduta dell’impero romano d’Occidente sarà sempre oggetto di interesse da parte degli storici, che replicheranno nuovamente gli schemi dei lontani predecessori, evidenziando oppure sminuendo la deposizione dello sfortunato Romolo Augustolo, focalizzandosi sul valore simbolico dell’atto oppure sottolineando come l’episodio sia stato piuttosto marginale e semplicemente la logica conclusione di un processo iniziato decenni prima.

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