Sul mondo moderno e il suo difficile rapporto con la realtà: “Post-verità e nuovi enigmi”, un nuovo libro di Maurizio Ferraris

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Il lettore scuserà la lunghezza di quest’articolo ma si tratta di un concetto, quello della post-verità, che ai più appare banale e scontato ma che, in realtà, rappresenta il fulcro della nostra epoca. Un’epoca narrata ormai da personaggi che affondano le loro radici in una storia precedente, traumatica, piena di svolte e di ritorni, di traumi e rimozioni, di passioni e delusioni che tuttavia gli impedisce (non a tutti ovviamente: Maurizio Ferraris ne è la prova) uno sguardo che non sia – come si potrebbe credere – obiettivo (utopia!) ma quanto meno scevro delle categorie che hanno condizionato la loro vita: quelle del Novecento. Eppure, a partire dalla fine degli anni ’70, tutto cambia e ci porta dritti a noi. Oggi. Non ieri: per questo credo che viviamo un’epoca di profonda rivoluzione globale. Checché ne dicano i “decadentisti” di ieri, di oggi e di domani (ma soprattutto di ieri).  Facile interpretare, dunque, quest’epoca – di bufale e di menzogne, di news buone e news false – come un decadimento: lo scrive anche Ferraris che “sebbene sia forte la tentazione di dire che menzogne e bufale sono sempre esistite, che la menzogna è ingrediente imprescindibile della politica e della vita, e che dunque non c’è niente di nuovo sotto il sole di che si chiama “post-verità”; sebbene si abbia voglia di tagliar corto dicendo che – al massimo – si tratta di fare attenzione a quel che si mangia e si beve, sono convinto che la post-verità sia un concetto nuovo, e che la sua “emergenza” definisca  delle caratteristiche essenziali dell’opinione pubblica contemporanea”

Enrico Ruffino, Venezia –

 

La verità. Quante volte abbiamo sentito dire, anche a sproposito, che la si deve dire, gridare e urlare? Ce lo siamo sentiti dire anche noi giovani, che di difetti ne abbiamo tanti tranne quello di essere tutti uguali, tutti fatti con lo stampino o con il calco dell’ignoranza. Già i per sé pensare che tutti i giovani siano omogeneamente degli ignoranti, senza una lingua e una cultura, è un sintomo eloquente: la verità è un concetto, ad oggi, labile e ad uso e consumo di chi se ne crede portatore naturale.

Ci si può permettere, infatti, di insultare uno sconosciuto e dirgli, in base ad una sorta di elitismo intellettuale, che gli si deve dire la verità: ovvero che non sa ragionare, che non sa fare un ragionamento complesso, oppure che gli mancano le basi per poter discutere con lui. In base a cosa? Due parole? Uno scambio di battute prontamente cassato da una cornetta chiusa in faccia?

Prima di parlare di verità bisognerebbe comprendere quanto questo concetto sia diventato particolarmente fragile e complesso a seguito della moltiplicazione esponenziale delle “fonti”: più fonti si hanno, più diventa difficile esprimere un giudizio veritiero. Allora tanto vale affidarsi all’intuito, e lasciare le fonti alla loro complessità senza curarsi di capirle.

Le complicazioni si moltiplicano, infatti, all’infinito per ogni singolo oggetto in analisi, a causa della sua natura e della sua costruzione: le fonti, di qualsiasi natura esse siano, non sono mai neutre. E più fonti si hanno, più diventa difficile ricostruire il fatto (esercizio epistemologico complicatissimo già prima). Rendercene conto aiuterebbe anche a formulare i giudizi in maniera meno perentoria e, diciamocelo pure, meno snob.

 

 

Il Novecento da cui non si riesce a staccarsi

Questo concetto – che ai più potrebbe apparire banale – è, però, tutt’altro che scontato. Cosa più grave, non lo è per molti intellettuali che, ancorati ad un passato da cui non vogliono distaccarsi, devono ancora ribadire la loro condizione di intellettuali engagé: come se il Novecento avesse lasciato in loro un’impronta talmente marcata da non potersene liberare.

Volendo però addentrarci nei meandri del “secolo breve”, se Pasolini e Sciascia dovevano, ad esempio, gridare la verità sul potere – anche a costo, come nel primo caso, di morire – alcuni intellettuali odierni intendono dire – non sul potere ma a chi lo subisce – la loro verità, che equivale, nella maggior parte dei casi, a formulare giudizi su una piccolissima scrematura di fonti: l’incipit di una domanda, un dialogo telefonico durato meno di due secondi, una lettura “veloce” di un post.

Tanto basta per formulare la verità. Poco importa che l’ancoraggio agli schemi interpretativi del Novecento, checché se ne dica, è più forte in loro che nelle nuove generazioni o, ancor peggio, nell’opinione pubblica. Lo scrive anche il filosofo Maurizio Ferraris, che nel suo ultimo volume – Post-verità ed altri enigmi (Il Mulino, 2017) – non ha avuto parole dolci nei confronti di “buona parte della critica sociale” odierna che:

“tende a rintracciare l’origine di ogni male in entità trascorse e ormai mitologiche, come appunto il capitale, senza prendere in esame l’ipotesi che quella stagione sia finita da tempo e che, anche qui, bisogna trarne le conseguenze aggiornando le categorie fondamentali con cui leggiamo la realtà sociale”.

 

Dal Capitale alla Documedialità: un monito agli storici

Parole dure, certo, ma sulle quali non si può che concordare. D’altronde il filosofo individua nella post-verità “un fenomeno rilevante” che aiuta “a cogliere l’essenza della nostra epoca, proprio come il capitalismo costituì l’essenza dell’Ottocento e del primo Novecento e i media sono stati l’essenza del Novecento maturo”.

Secondo l’argomentazione del filosofo, ciò è avvenuto perché dal Capitale si è passati alla Documedialità: neologismo coniato dall’intellettuale con cui designa “il medium tecnico che ha reso possibile la postverità: l’unione tra la forza normativa dei documenti e la pervasività nei media nell’età del web”. Infatti, “da vent’anni a questa parte […] con un telefonino in mano chiunque può diffondere, urbi et orbi, le proprie opinioni”.

Curiosamente, Ferraris scrivendo da filosofo si rivolge involontariamente allo storico che, oggi giorno, difficilmente riesce ad interpretare questa profondissima trasformazione sociale ed antropologica. Ancorati ancora agli schemi interpretativi della modernità novecentesca – il capitale, i totalitarismi, i terrorismi del secondo Novecento e quel sempiterno vizio metodologico ad usare il paradigma della decadenza per spiegare qualsiasi evoluzione che ci porti all’oggi – molti storici fuggono da un fenomeno tanto potente quanto pervasivo: la segmentazione della realtà attuatasi alla fine degli anni ’70 e prolungatasi fino ad oggi che, di fatto, ha chiuso il Novecento aprendo alla modernità odierna, che è tutt’altro che decadenza.

Quando il filosofo francese Francois Lyotard pubblicava, nel ’79, il suo volumetto sulla La condizione post-moderna: rapporto sul sapere – quello che viene generalmente definito il “manifesto” del post-modernismo – era in corso, già dai primi anni ’70, un fenomeno che, ad intellettuali come Carlo Ginzburg (che si scagliava contro l’irrazionalismo foucaultiano), Italo Calvino e Giovanni Levi, cominciava ad apparire pericoloso.

La “realtà” subiva una radicale messa in discussione e i suoi schemi interpretativi andavano frantumandosi fino a sciogliersi, ad esempio, nell’estremismo dell’anarchia epistemologica di Paul Feyerabend. Si trattava della “crisi dei saperi” e delle “grandi narrazioni” – le ideologie – che avevano smesso tanto di affascinare quanto di fornire gli strumenti adatti per leggere la realtà: tolta la patina ideologica, restava quella linguistica. E la realtà diveniva un “frammentato gioco linguistico”. Ferraris, che di questa “storia” è stato sia esponente (si formò con il “pensiero debole” di Gianni Vattimo) sia acerrimo nemico, ha infatti ricordato la pericolosità di questa deriva.

 

Friedrich Nietzsche

 

Il Bisnonno della post-verità

La post-verità ha, infatti, secondo Ferraris, dei padri – i post-moderni – dei nonni – gli esistenzialisti – e infine un bisnonno eccellente: Friedrich Nietzsche. L’assurto che più ha avuto successo nel post-modernismo e che oggi continua imperterrito a co-esistere nelle mentalità “post-vere” è, infatti, quello più famoso del filosofo: “non esistono fatti ma solo interpretazioni”.

Ma, scrive Ferraris, “cosa potrebbe essere un mondo, o anche semplicemente una democrazia, in cui si accettasse la regola del “non ci sono fatti solo interpretazioni’?” a frase ricorda più il mestiere dello storico che quello del filosofo. E infatti se ci basassimo solo sulle “interpretazioni” sostenendo che il “fatto” non esiste, anche Parentesi Storiche potrebbe chiudere bottega: potremmo mai affermare che la strage del Bataclan a Parigi non è mai avvenuta? Che il “fatto” non esista ma esistano solo delle interpretazioni? Noi no.

Ma in realtà, nel marasma del web, si sono moltiplicate le reazioni di chi ha sostenuto che l’attacco “non c’è mai stato”, “che erano attori”, “sì, c’è stato ma è stato creato ad hoc dai gruppi finanziari”. Anche un giornale come La Stampa è caduto nel tranello dell’epoca post-vera, intitolando un articolo di Gianni Riotta “fatti non contano più” e d’altronde anche la grande stampa– che ormai rappresenta l’informazione ufficiale contrapposta a quella non ufficiale del web – è stata definita da un intellettuale come Chomsky  “informazione di propaganda”: segno che in un’epoca come questa, in cui i documenti sono triplicati e diffusi con una velocità impensabile trent’anni fa, ognuno può professare una verità che essendo una – intesa come quella del singolo – è atomizzata in mille particelle.

Insomma, è il tratto distintivo della post-verità che vede milioni di persone portatrici di verità alternative, diverse da quella ufficiali, ma è anche la più grande dimostrazione di quello che Ferraris definisce “l’alleanza tra la potenza modernissima del web e il più antico desiderio umano, quello di avere ragione a tutti i costi”.

 

Maurizio Ferraris

 

Fare la verità-costruire la verità: non arrendersi alla post-verità

L’aver ragione – come ricorda il filosofo torinese – non è un tratto distintivo né della nostra epoca né delle epoche precedenti: è una caratteristica innata nell’uomo, una funzione “metastorica” che, con la produzione di documenti diffusi con una rapidità impressionante, assume caratteri ampissimi.

Ma noi, che alla storia ci teniamo, dovremmo cedere al ricatto post-vero? Dovremmo dire che il “fatto” non esiste ma esistono le interpretazioni? Dovremmo agire come l’intellettuale che chiude la cornetta non appena ha sentito una domanda che snobba, dando giudizi su chi la pone? (D’altronde, diceva Carlo Ginzburg, non esistono domande stupide. Esistono risposte stupide).

Dovremmo dire che noi abbiamo la verità? Rischieremmo di far parte, come l’intellettuale fa oggi, di quegli “atomi” che compongono il concetto – non solo filosoficamente ma anche storicamente rilevante – della post-verità. Ciò che in realtà lo storico dovrebbe fare in un’epoca post-vera è ripensare all’educazione al vero: se vi sono troppi documenti non significa che sia impossibile analizzarli, e quindi rinunciare a prescindere alla ricostruzione del fatto; significa che bisogna avere gli strumenti per poterlo fare.

Nel suo volume Ferraris propone una “nuova teoria del vero” che ha alla base la mesoverità: “una prospettiva che valorizza il medium tecnologico che mette in relazione l’ontologia e l’epistemologia”. Il filosofo propone, infatti, attraverso il passaggio dall’epistemologia all’ontologia, di fare la verità. Ma Ferraris è un filosofo: allo storico spetta il compito di ricostruire la verità. In tutti i sensi possibili.

 

Maurizio Ferraris
Post verità e altri enigmi
Bologna, Il Mulino, 2017
pp. 181