“e’ dicono che’ Lombardi hanno paura della lumaccia”: significati e simbologie della lumaca nei marginalia gotici medievali

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Giuseppe Catterin, Venezia –

A cavallo tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo – con alcuni esempi, limitati all’area fiamminga ed inglese, che si protrassero fino alla prima metà del XIV secolo –, nei marginalia miniati (rappresentazioni grafiche poste a integrazione e decorazione del testo manoscritto) nasceva e si diffondeva l’immagine comica, a tratti grottesca, del miles loricato e armato di tutto punto in procinto di combattere una lumaca.

La rappresentazione di questa singolare tipologia di scontro può certamente venir ricondotta al florido genere delle drôleries medievali, filone iconografico di larghissima diffusione (si possono incontrare sia nei salteri e sia nei breviari) basato, il più delle volte, sul concetto satirico del “capovolgimento del Mondo”.

I protagonisti delle drôleries, pur variando in genere o numero, sono tuttavia legati dalla stessa caratteristica peculiare, vale a dire l’immediatezza del messaggio che vogliono trasmettere: nell’incontrare la lepre armata e intenta a cacciare il levriero o il cacciatore si può chiaramente evincere il messaggio antifrastico della preda che si trasforma in predatore.

Nel caso della lumaca, tuttavia, tale immediatezza comunicativa risulta a tratti un po’ più oscura. Sostenere che la sua manifestazione possa assumere una valenza iconologica riconducibile alla sfera dell’ironia può certamente risultare vero; tuttavia, nel limitarsi a tale spiegazione si rischia il pericolo di fornire una soluzione parziale, se non addirittura alquanto riduttiva.

 

 

Il primo problema che si pone è di natura “interpretativa”. La lumaca, infatti, a causa della sua duplice natura di animale anfibio e terrestre, creò non pochi problemi di catalogazione, risultando inclassificabile per la zoologia medievale: ora verme, ora conchiglia, ora serpente. Stando agli osservatori medievali, essa nasce dal fango e dal limo della terra, similmente a quanto accade per i vermi; possiede però una conchiglia, che è la sua casa. Infine, nel muoversi striscia come i serpenti.

Aspetti della natura dell’animale che, a modo loro, andarono certamente a contribuire alla formazione di varie immagini metaforiche nonché precise figure iconografiche: il suo strisciare, ad esempio, venne ben presto elevato al rango di cliché adatto, vista l’immediatezza, ad indicare la figura del parassita sociale.

La conchiglia, a sua volta, divenne fonte di numerosi topoi letterari. Il portarsela costantemente a presso diventò la rappresentazione antonomastica dell’eccessiva diffidenza: la lumaca, ed è una credenza che nasce durante l’Antichità Classica, accetta volentieri tale fatica per via della sua naturale paura di vedersela sottratta.

Il suo emergere dalla conchiglia, invece, venne ben presto associato alla figura dello “scalatore sociale”, che s’andò ad identificare come “limechon qui sort de sa coquille” [lumaca che esce dalla sua conchiglia]. Questo sequenza codificata di messaggi è quasi certamente legata alla sfera semantica del ribrezzo che tale animale poteva suscitare.

 

 

Sicuramente, nonostante le piccole proporzioni, la lumaca era temutissima per via della sua voracità – e, conseguentemente, per la dannosità che poteva arrecare a certe colture specializzate. Non deve quindi stupire incontrare tale animale nell’elenco delle rappresentazioni animali dei vizi umani, avarizia in primis.

Lo storico fiammingo Maeterlink, infine, nella raffigurazione della lumaca scorge una rappresentazione satirica del processo di comitatinanza: le chiocciole non sarebbero altro che tutte quelle forze locali, detentrici di poteri feudali di vario genere, che, di fronte al crescere d’importanza degli elementi cittadini, preferirono arroccarsi nelle proprie “conchiglie”.

 

“e’ dicono che’ Lombardi hanno paura della lumaccia”: i “Lombardi” e la lumaca

Tralasciando le visioni minoritarie, che vedevano nei gasteropodi degli azzardati messaggi evangelici, giunti a questo punto risulta interessante soffermarsi sulla tradizione mitopoietica francese, in cui, come vedremo, la lumaca viene indicata come tramite necessario per far emergere maggiormente la negligenza e l’imperizia nell’uso delle armi.

In un passaggio del suo Polycraticus (1159), John of Salisbury si sofferma a narrare una storia molto probabilmente appresa durante la sua permanenza in Francia (1136-1149). Stando al prelato inglese,

 

Aemilianos et Ligures Galli derident dicentes eos testamenta conficere, viciniam convocare, armorum implorare praesidia, si finibus eorum testudo immineat quam oportet oppugnare”.

 

In poche parole, due “nationes” gravitanti all’interno della Penisola italiana vengono descritte come sgomente dalla paura all’apparizione di una lumaca. Come poc’anzi ricordato, l’opinione raccolta durante il soggiorno francese ci può far ipotizzare un’ampia circolazione di tale corpus già durante la prima metà del dodicesimo secolo.

 

 

E’ invece del primo quarto del Duecento l’osservazione Odofredo, magister in legge dello studio di Bologna, che resse l’omonima cattedra a Parigi tra il 1228 e il 1234. Nelle sue memorie dei trascorsi parigini, Odofredo annota, non senza un certo fastidio, come gli “ultramontani” usassero affibbiare ai Lombardi, e in generale a tutti gli studenti provenienti dalla Penisola, una lumaca come simbolo.

Tuttavia, e la cosa si fa più interessante, in questa data l’animale viene già recepito come simbolo dell’imbelles: dipingendole sulle pareti, gli ultramontani speravano di incutere paura presso i colleghi italici. Infine, il Villani, nella sua Cronaca, rammenta ancora la persistenza di tale convinzione agli inizi del Trecento.

Si può dunque sostenere, senza scadere nell’iperbole, un certo successo del mito legato alla “fobia” della lumaca. Tali convinzioni, tuttavia, traevano il proprio humus dalle fonti letterarie, epica cavalleresca francese in primis.

Nel De lumbardo et lumaca, ad esempio, “commedia elegiaca” composta molto probabilmente verso la fine del XII secolo, un Lombardo, figura paradigmatica dell’uomo pavido, deve affrontare una lumaca rea d’aver invaso i suoi possedimenti.

Il climax ironico della vicenda, in cui sono riscontrabili numerose analogie con il passo del Polycraticus, avviene nel momento dello scontro: l’antieroe lombardo, loricato di tutto punto, si appresta a carica il “mollusco invasore”. Propositi bellicosi subito smontati dalla moglie del cavaliere, timorosa – forse perché a conoscenza della vera preparazione bellica del marito – per l’esito dell’imminente scontro.

Di poco posteriore al De lumbardo et lumaca, la connessione “lombardi” e “lumaca” si presenta anche nei primi del Duecento, quando, per bocca di un nobile francese, veniamo a sapere come si misurasse l’onore e la bravura nell’usare le armi:

 

“(Mais) Pour vous ne fuiray pour plain pie que ie face. Je ne suis pas Lombart qui fuit pour la lymaiche.”

 

Si tratta chiaramente di cliché frutto di una serie di equivoci interculturali, non diversamente dagli altri stereotipi etnici diffusi in Italia, come quelli sulla rozzezza dei Tedeschi, l’alterigia dei Francesi, la perfidia dei Greci.

I Lombardi che i cavalieri francesi consideravano tutti imbelli erano i mercanti e i prestatori che essi erano soliti incontrare alle fiere della Champagne o nelle tesorerie dei loro principi (in un “disgusto” non dissimile da quello mostrato da Ottone di Frisinga) e non certo i “pari”, e cioè tutti quei milites che, nel frastagliato universo che costituiva l’Italia comunale, ora si opponevano, ora costituivano l’ossatura delle varie città.

 

 

D’altra parte, i milites che parteciparono alla conquista di Padova si vantavano – come ci ricorda Rolandino da Padova – delle profonde cicatrici conquistate durante l’assedio; lo stesso cronachista patavino, d’altra parte, ci ricorda più di una volta le gesta dei berrovieri (armati a cavallo la cui origine non era nobile) della Marca trevigiana. Marca trevigiana in cui, nonostante il robusto impianto urbano, il cavalierato cittadino manteneva fortissima l’impronta feudale.

Ma c’era anche un altro equivoco, culturalmente più interessante, all’origine del cliché dell’italiano imbelle. Nella gesta carolingia, il fondo comune di memorie romanzate cui attingevano i poeti della chanson de geste, i Longobardi erano regolarmente presenti come un nemico infido ma vile, che Carlo Magno aveva sbaragliato senza fatica.

Fin dal brano famoso di Notker Balbulo, scritto verso l’886-887, in cui è descritto il terrore di re Desiderio e dei suoi Longobardi rinchiusi dentro le mura di Pavia, all’apparire del ferreo esercito dei Franchi, lo stereotipo era entrato in circolazione, per essere ripreso a piene mani dagli autori epici; soprattutto come si sarà già notato, quelli che scrivevano su Ogier, l’eroe franco che secondo la leggenda s’era urtato con Carlo Magno ed era riparato proprio in Italia, alla corte di Desiderio.

Poco importa, come fatto notare da David Nicolle, che le truppe longobarde si distinsero per tenacia e valore anche sotto le armi del re dei Franchi: la sconfitta, avvenuta per la debolezza della monarchia longobarda piuttosto che per eventuali debolezze militari, era destinata ad entrare nella storia, dando inizio al processo mitopoietico e alla nomea di scarso valore militare a tutti i “lombardi”.

Ed ecco che la chiocciola, e la paura suscitata nonostante la disarmante fragilità dell’animale, divenne il giusto mezzo per poter rivendicare una vittoria i cui fasti erano duri a morire.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • A. Barbero, Il castello, il comune, il campanile. Attitudini militari e mestiere delle armi in un paese diviso, in “Storia d’Italia, annali 18, guerra e pace”, Torino, Einaudi, 2002, pp 49-65
  • S. Gasparri, I milites cittadini : studi sulla cavalleria in Italia, Palazzo Borromini, Roma, 1992
  • M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino, Einaudi, 2012.
  • M. C. Randall, The snail in Gothic Marginal Warfare, in “Speculum” , Vol. 37, No. 3 (Jul., 1962), The University of Chicago Press, Chicago, pp. 358-36.
  • A. Settia, Uomini e armi negli eserciti ezzeliniani, in Nuovi studi ezzeliniani, 1, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1992, pp. 105-111.