Le altre Gladio e le altre stragi: conversazione con Giacomo Pacini

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A cura di
Enrico Ruffino, Venezia –

 

Giovane storico non accademico, tra i più apprezzati nel panorama nazionale, Giacomo Pacini è anche uno degli studiosi più disponibili al dialogo. Capita spesso che se hai qualche dubbio, non riesci ad associare un volto ad una persona, un fatto ad un evento, lui è sempre lì pronto a sciorinarti vita, morte e miracoli di un personaggio, associarlo ad un evento, inquadrarlo in una storia più grande. Si può dire che Pacini è una enciclopedia vivente, una risorsa preziosa per un paese che naviga nei meandri delle mezze verità, che viaggia sulla linea d’onda di ricostruzioni poco accurate che, spesso o volentieri, tralasciano alcuni scenari. Oggi gli abbiamo chiesto della sua più recente fatica, Le altre Gladio (Einaudi, 2015), ma anche di lavori in corso, appena abbozzati, per i quali non ha mancato di darci ricostruzioni preziose. Un’intervista che va letta interamente per capire cosa accade nella nostra, martoriata prima Repubblica. 

 

 

Voglio iniziare con una provocazione: sei di destra o di sinistra?

 

E io voglio evitare di cavarmela con la scontata risposta: “Ma oggi cosa sono destra e sinistra?” Diciamo che mi sono sempre riconosciuto in un’area definibile di sinistra, ma mi piacerebbe una sinistra che, accanto ai pur fondamentali diritti civili, si ricordasse degli altrettanto importanti diritti sociali.  Altrimenti non ti devi stupire se vinci ai Parioli e perdi nelle periferie.

 

Naturalmente la provocazione non era fine a se stessa, era finalizzata al tuo lavoro su le altre gladio. Le poche critiche che hai ricevuto per quell’imponente ricerca sono provenute da sinistra, la quale ti ha additato una certa propensione al “filo-atlantismo” o “propagandismo di destra”. Personalmente, non riesco a capire perché, a fronte di un dispendioso lavoro di archivio, si cerchi ancora di valutare le grandi questioni con criteri politici. Quindi, ti domando: a cosa credi sia dovuto questo atteggiamento?

 

Premesso che qualsiasi recensione, anche la più negativa, se fatta in buona fede va sempre accettata, in questo caso stiamo davvero parlando di un qualcosa di minimale. Nello specifico, una “studiosa” in una recensione on-line ha sostenuto che l’aver parlato di un alto numero di morti nelle foibe mi equiparerebbe, appunto, a certi “sfegatati propagandisti” (di destra naturalmente). Non solo, ella ha addirittura scoperto che per il mio libro mi sarei ispirato nientemeno che a un articolo uscito sulla rivista di destra Area nel 1997 (quando ancora facevo le superiori). Che dire? E’ chiaro che non si può che sorridere. Diciamo che alla recensitrice non è andato giù soprattutto il secondo capitolo del libro (e viene il sospetto abbia letto solo quello) dove trattavo dei presupposti ideologici delle organizzazioni Stay Behind, ricostruendo, tra le altre cose, la storia dell’insanabile contrasto che si creò tra i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi e i partigiani cattolici e liberali delle brigate Osoppo. Nel farlo, inevitabilmente, ho dovuto trattare di tragedie come le foibe, la strage di Porzus o i cosiddetti quaranta giorni di occupazione slava di Trieste (dei quali secondo l’autrice della recensione “da un punto di vista storiografico” non sarebbe accettabile parlare). Tutto questo non è piaciuto. Me ne faccio una ragione, in fondo il libro ha avuto un tale numero di recensioni positive su gran parte della stampa nazionale e su riviste scientifiche da lasciarmi stupito e (bando alla falsa modestia) inorgoglito, considerando che è stato un lavoro molto impegnativo anche perché svolto in totale autofinanziamento, senza nemmeno un centesimo di sostegno pubblico. Per cui ci mancherebbe non accettare delle recensioni negative.

 

Il nuovo libro di Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia, 1943-1991 (Einaudi, 2016)

 

E più in generale?

 

Più in generale, diciamo che è vero che parte della storiografia ha avuto, e parzialmente ha ancora, difficoltà a studiare sine ira et studio un fenomeno complesso come l’anticomunismo. Che in Italia ha avuto degenerazioni terribili e penso di averne scritto in abbondanza. Per esempio, perdona l’antipatica autocitazione, personalmente credo di aver contribuito a portare alla luce uno dei documenti più eloquenti (come lo ha definito Vladimiro Satta commentandolo nel suo libro I nemici della Repubblica) circa l’interesse del servizio segreto militare nell’attuare azioni di provocazione contro la sinistra. Si tratta di una relazione del cosiddetto Ufficio Rei del Sifar risalente al settembre 1963 e nella quale, in coincidenza con la nascita del primo governo organico di centrosinistra, si programmavano appunto in modo esplicito azioni mirate per danneggiare il Pci. E altro potremmo citare.

 

La foto che ricorda l’eroico sacrificio del finanziere Antonio Zara, Medaglia d’Oro al Valor Militare, esposta in una mostra in occasione del 42° anniversario della strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973

 

Mi saltano in mente le parole di Aldo Giannulli che in più occasioni ha sostenuto che si è ben studiato l’antifascismo ma mai bene l’anticomunismo. Tuttavia non ti sembra un po’ riduttivo quest’interpretazione in chiave tutta anticomunista?

 

La storia dell’anticomunismo in Italia può davvero essere ridotta solo a una questione di bombe e stragi? E si può sul serio sostenere che da Portella della Ginestra in poi tutto debba sempre e comunque essere inserito nello scenario secondo il quale fascisti a libro paga dei servizi segreti venivano utilizzati per creare tensione e favorire un colpo di stato anticomunista? La risposta mi sembra ovvia; no. Se nessuno può negare che più di una volta il Pci abbia difeso le istituzioni e la democrazia pagandone anche un caro prezzo, è altrettanto vero che il quarantennio democristiano non può essere descritto solo come una sorta di catena di complotti per fermare la democratica ascesa del Pci stesso. Tutto questo non solo non corrisponde al vero, ma ha anche impedito alla sinistra di elaborare fino in fondo una seria riflessione su quanto, dal 1948 a gran parte degli anni settanta, abbia indirettamente pesato nel mancato ricambio della classe dirigente al potere la dicotomia tra l’inserimento del Pci in una democrazia occidentale e il suo legame mai pienamente scisso con l’Urss. Quella che (mi rendo conto, in modo un po’ semplicistico) viene solitamente chiamata “doppiezza”. Sinceramente, mi sembrano considerazioni perfino banali, ma talvolta chi ha ancora la testa rivolta al Novecento fatica a accettarle.

 

Infatti, il tuo libro va in tutt’altra strada.

 

Come mi è capitato di dire in alcune presentazioni, il mio libro è stato un tentativo (naturalmente non sta a me dire se riuscito) di ricostruire la storia legale e non legale della lotta anticomunista in Italia. Ma evitando giudizi categorici o perentori e per questo se al termine della lettura chi ritiene che la lotta anticomunista in Italia sia stata solo una sequela di bombe e stragi e chi, al contrario, nega che tale lotta abbia conosciuto anche simili degenerazioni, rimarrà deluso, credo che il libro avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi.

 

Lo stemma dell’organizzazione Gladio

 

Attorno a Gladio (quale Gladio, poi?) è stata costruita una grande “tragediografia”. E’ stata assunta, un po’ come la P2, a grande deus ex machina della tragedia repubblicana.

Quando nell’ottobre 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio scoppiò una vera e propria bufera politica. Per mesi la vicenda riempì le prime pagine di tutti i giornali (nei due anni successivi è stato calcolato che furono scritti oltre 3000 articoli) alimentando infiniti dibattiti che culminarono in una richiesta di “impeachment” mossa contro il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. D’altronde, le illazioni che per anni erano circolate intorno all’esistenza di un servizio segreto parallelo che operava nell’ombra sembravano aver trovato un riscontro ufficiale e improvvisamente Gladio diventò la chiave per capire ogni mistero della storia d’Italia, dalle stragi, ai tentati colpi di stato, agli omicidi politici. Oggi sappiamo che non era così; Gladio era una porzione di un sistema di sicurezza molto più complesso e articolato che ho cercato di ricostruire nel mio libro, intitolato appunto Le Altre Gladio.

 

Cos’era Gladio?

 

Nello specifico, la Gladio (o Stay Behind italiana) era un’organizzazione segreta che fu creata nell’autunno 1956 e che essenzialmente aveva il compito di attivarsi in caso di invasione del territorio italiano da parte di un esercito straniero (nella fattispecie ovviamente le truppe del Patto di Varsavia). Fino ai primi anni 70, la dottrina militare italiana era imperniata sul concetto della cosiddetta Difesa Arretrata e Manovra in Ritirata, che, in estrema sintesi, voleva dire il lasciare volutamente, all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario ingaggiando combattimenti non per arrestare il nemico ma per rallentarne l’avanzata e logorarlo al fine di poter arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da dove poi doveva partire la controffensiva. Da qui l’importanza del ruolo di Gladio, divisa in 5 cosiddetta Unità di Pronto Impiego (Upi), che allo scoppio delle ostilità avrebbero dovuto raggiungere le zone del confine orientale loro assegnate e dare inizio alla lotta partigiana proprio in quella parte di territorio nazionale lasciata volutamente sguarnita ed in cui l’esercito invasore doveva essere, diciamo così, impantanato e poi bloccato. Questa tattica mutò nel 1972 allorché furono varate da Shape (comando supremo delle potenze alleate in Europa) nuove tecniche di guerra non ortodossa e, per quanto riguarda l’Italia, fu adottata la dottrina della cosiddetta Difesa Avanzata, che in sostanza voleva dire una difesa ancorata, fissa, appoggiandosi ai rilievi montuosi lungo la frontiera alpina e una difesa mobile nella fascia di pianura tra Udine e l’Adriatico.  In fondo, se ci pensiamo bene, di per sé Gladio non aveva nulla di veramente originale. Addirittura dai tempi delle guerre napoleoniche esistevano strutture di questo tipo, contigue alle forze armate e capaci di utilizzare tecniche di guerriglia contro un eventuale esercito che avesse invaso il proprio territorio. Gladio, in particolare, traeva la sua origine da similari organizzazioni armate a carattere segreto che erano state attive durante la seconda guerra mondiale nei territori occupati dai tedeschi. Alla base della nascita di Gladio stava poi anche l’idea che la Guerra Fredda avrebbe cambiato per sempre il modo di combattere, ossia che non ci sarebbe più stato soltanto un canonico conflitto militare tra eserciti, ma che, appunto, la cosiddetta guerra di guerriglia avrebbe assunto un’importanza sempre maggiore.

 

Quanto Gladio, in quel 1990, era spendibile politicamente?

 

Una questione mai del tutto chiarita è perché Andreotti nel 1990 decise di rivelare, con quella modalità, l’esistenza di Gladio. Naturalmente la fine della Guerra Fredda aveva ormai reso superflua quella struttura (che peraltro nel corso degli anni ottanta aveva subito molti cambiamenti interni), ma quello di renderne nota l’esistenza fu ugualmente una decisione improvvisa, avvenuta a totale insaputa, per esempio, dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga (che conosceva Gladio dal 1966, anno in cui divenne sottosegretario alla Difesa) o della stessa Nato. Certamente Andreotti lo fece perché pressato dalla magistratura, che da tempo era alla ricerca di una organizzazione segreta, della cui esistenza, come accennato, si vociferava da anni (dai tempi del caso dell’inchiesta sulla cosiddetta Rosa dei Venti del giudice istruttore padovano Giovanni Tamburino). Ma si è anche spesso sostenuto, probabilmente con più di una ragione, che Andreotti lo fece per lanciare una sorta di ponte alla sinistra e ottenerne quantomeno una non ostilità in vista della futura nomina a Presidente della Repubblica per la quale all’epoca egli sembrava il naturale candidato. Poi, come noto, gli eventi dei primi mesi del 1992 cambiarono completamente le carte in tavola.

 

Ci sono dei passaggi nella storia dell’Italia repubblicana che sono stati completamente omessi sia dal discorso pubblico che, ancora più grave, dalla storiografia stessa. Uno di questi è il ruolo che il terrorismo palestinese ha assunto in Italia. Pochi ricordano le stragi palestinesi (entrambe all’aeroporto di Fiumicino in anni diversi) e si trovano ben poche (nessuna che io conosca) che analizzino l’altro terrorismo. Non pensi che Gladio possa essere stato un parafulmine per rimuovere anche questa storia? Oltre che per coprire le altre organizzazioni paramilitari, quelle “illegali”? Insomma, come spieghi la rimozione dal discorso pubblico del ruolo del terrorismo palestinese in Italia?

 

Che Gladio sia servita come parafulmine di altre strutture, realmente coinvolte in alcune oscure vicende della storia italiana, è un’ipotesi che ho cercato di sviluppare nell’ultima parte del libro e che credo abbia trovato un riscontro assolutamente positivo.
Quanto al terrorismo palestinese e alla scarsa attenzione a esso dedicata, io allargherei la questione. Naturalmente non bisogna generalizzare, ma, con le dovute e lodevoli eccezioni, va detto che la storiografia non sempre ha brillato per dinamismo e innovazione e ha oggettivamente accumulato dei ritardi (che finalmente cominciano a essere colmati) su molte delle vicende post-1945, non solo sul terrorismo palestinese. Per dire, allorché si parla del ruolo dell’Italia nella Guerra Fredda capita che lo si studi ancora quasi esclusivamente nel contesto del conflitto est-ovest, ignorando il fondamentale scenario mediterraneo. Ossia, il conflitto, per così dire, “nord-sud” per l’approvvigionamento delle risorse petrolifere.  Anche per questo vicende come, appunto, le stragi palestinesi di Fiumicino (o casi come quello dell’aereo Argo 16) sono ancora quasi del tutto ignoti. Ci aggiungerei un’altra vicenda; quanti per esempio, anche tra autorevoli storici dell’Italia Repubblicana, conoscono la storia della scomparsa della nave Hedia, affondata nel Mediterraneo nel marzo 1962?  Ne ha parlato qualche tempo fa Mimmo Franzinelli. Fu una vera e propria Ustica dei mari, morirono 19 italiani e un gallese e recenti ricerche hanno evidenziato che con quel mercantile venivano trasportati clandestinamente verso l’Algeria aiuti per i ribelli del Fronte di Liberazione Nazionale. E potremmo continuare; è proprio la storia della diplomazia parallela che l’Italia condusse nel Mediterraneo che attende ancora di essere conosciuta nella sua interezza.

 

La nave Hedia, scomparsa nel Mediterraneo il 21 marzo 1962

 

Volevo arrivare al “Lodo Moro”. Innanzitutto, è esistito o non è esistito? E se si, che ruolo ha assunto?

 

Il Lodo Moro è una verità storica acclarata. Naturalmente ancora molto materiale documentale dovrà emergere prima di avere un quadro esaustivo, ma sulla esistenza di un patto di non belligeranza tra l’Italia e la galassia palestinese non vi sono più dubbi. Sulla base del materiale oggi disponibile, si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell’ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi.
Fu però con il ritorno di Aldo Moro al ministero degli Esteri nell‘estate 1973 che il patto prese davvero forma. In particolare dopo l’arresto avvenuto a Ostia nel settembre 1973 di 5 palestinesi trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell’ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione (e che coinvolsero anche la Libia) l’Olp si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano. Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell’intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973. Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi molto legato a Aldo Moro.

 

Credi che in futuro, come per esempio ha sostenuto il magistrato Rosario Priore, il Lodo Moro possa consentire di riscrivere parti della storia italiana?

 

Riscrivere la storia è un’affermazione molto impegnativa. Diciamo che certamente consentirà di rileggere parte della storia della politica estera italiana degli anni settanta. Ti faccio un esempio; il 23 gennaio 1974 Moro di fronte alla Commissione Esteri del Senato pronunciò uno dei suoi discorsi più appassionati in favore dei palestinesi, affermando che essi non stavano cercando assistenza, ma una patria ed era perciò assolutamente necessario che finisse l’occupazione israeliana dei territori. Un intervento che, come dimostrano alcuni dispacci giunti dai nostri ambasciatori dalle capitali arabe, fu molto apprezzato e elogiato in gran parte del Medio Oriente. Con l’apparente paradosso che alcuni giorni dopo, quando Moro si trovava in visita al Cairo, fu lo stesso ministro degli Esteri egiziano, Ismail Fahni, a fargli presente che era andato perfino oltre nel suo sostegno all’Olp e che la questione di una patria per i palestinesi andava affrontata solo quando ci sarebbero state le condizioni opportune. Grazie al materiale documentale di cui oggi disponiamo, possiamo con ragionevole certezza affermare che quel discorso Moro lo pronunciò proprio nel contesto delle trattative riservate di quei giorni e che dovevano portare alla messa a punto definitiva del Lodo. Fu, in qualche modo, un segnale all’universo palestinese della reale disponibilità italiana, al fine di evitare che si potessero ripetere tragedie come quella di Fiumicino del precedente dicembre 1973. Questo è un esempio di cosa intendo quando affermo che i documenti sul Lodo Moro ci possono consentire di avere una ricostruzione più ampia della storia della politica estera italiana. Sono argomenti di cui ti parlo qui in modo sintetico, ma che spero in futuro di poter trattare ampiamente in un saggio specifico.