Il racconto come lezione di vita: Esopo e le sue favole tra mito e storia

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Marco Alpan, Torino

Credete ancora nelle favole? Se sì, bene, perché siete in buona compagnia. Anche gli antichi nutrivano profondo rispetto per la favola e non la classificavano alla stregua di un mero racconto in grado di calmare gli spiriti bollenti dei bambini, bensì la consideravano un genere letterario codificato, con la sua dignità e autonomia.

Nelle loro primissime manifestazioni le favole venivano tramandate oralmente di generazione in generazione, in quanto parte viva e consistente del folklore di una società. Ben presto, però, nel mondo greco il genere divenne oggetto di letteratura e si ritagliò uno spazio significativo all’interno della tradizione. E siccome ogni materia ha bisogno del suo cultore, Esopo è stato da sempre ritenuto all’unanimità il primo e il più grande rappresentante della favola.

Le cose in realtà non sono così facili come sembra. In passato, infatti, molti studiosi avevano avallato l’ipotesi che Esopo non fosse mai esistito oppure che sotto il suo nome fossero state raccolte numerose favole provenienti dalle regioni più disparate della Grecia e non solo. Una sorta di caso analogo alla questione omerica o erodotea se vogliamo. Una tesi campata in aria? Non del tutto. Bisogna sapere che i dati della biografia di Esopo giunti in nostro possesso sono scarsi e imprecisi, spesso ricavati in modo spurio dalle scene presenti nelle sue Favole. Ma oggi questa posizione è stata superata; possiamo quindi affermare – seppur a bassa voce – che Esopo sia veramente esistito.

 

 

 

Nato intorno al 620 a. C., Esopo giunse a Samo come schiavo di un tale Xanto, ma passò gran parte della sua vita viaggiando a Babilonia, in Egitto e a Sardi. Rientrato in Grecia in età avanzata, morì nel 564 a. C. massacrato dagli abitanti di Delfi contro cui aveva diretto la sua satira – che evidentemente non fu molto gradita. Il Romanzo di Esopo, una biografia romanzata redatta tra il I e il II secolo d. C., ci fornisce altri racconti leggendari, inverosimili e disparati sulla sua vita. Su un dettaglio, però, quasi tutte le fonti paiono concordi: Esopo era brutto, deforme e balbuziente e queste sue imperfezioni saranno suo malgrado caratteri indelebili di tutte le raffigurazioni della sua persona.

Procediamo con ordine. È vero che Esopo fu il primo grande scrittore greco di favole, ma alcune attestazioni del genere, benché in forme marginali, erano già presenti in autori vissuti prima di lui. La storia dell’usignolo e dello sparviero, ad esempio, prima di confluire nella raccolta di Esopo, era narrata da EsiodoOpere e giorni, vv. 202-212 – che la indirizzava al fratello Perse per dissuaderlo dal compiere ingiustizie nei suoi confronti.

Anche nei frammenti di Archiloco si trovano, con valore paradigmatico, sia il racconto dell’aquila che, dopo aver violato il patto di amicizia con la volpe divorandole i cuccioli, viene punita con la morte dei propri piccoli, sia quello, estremamente lacunoso, della volpe e della scimmia – frr. 174-181 W. E 185-187 W. Qualcosa di affine al genere favolistico, infine, si trova in Solone e Simonide.

Ma diamo a Esopo quel che è di Esopo. Sotto il suo nome ci sono pervenute oltre quattrocento favole i cui protagonisti sono nella maggior parte dei casi animali. A loro la penna dello scrittore dona non solo la parola e l’intelletto, ma anche i vizi e le virtù tipici degli uomini così da renderli veri e propri stereotipi degli aspetti più variegati della natura umana: la volpe è astuta, l’asino stolto e arrendevole, il leone prepotente e forte e così via.

 

 

 

Nell’antichità erano attribuite a Esopo esclusivamente le narrazioni con protagonisti gli animali. Con il passare del tempo, però, confluirono nel corpus delle Favole anche i racconti aventi come personaggi uomini, piante, dei ed eroi della mitologia e persino entità astratte personificate come la morte, il trascorrere del tempo e altre ancora.

L’obiettivo principale delle favole, però, è uno solo: attraverso la messa in scena di situazioni tipiche della vita quotidiana esse mirano a fornire ai lettori modelli di comportamento. Per far sì che il messaggio di fondo non fosse interpretato male, alla fine di ogni favola è presente la cosiddetta “morale”, un commento che fornisce in maniera corta e concisa l’insegnamento nascosto.

Ora gustiamoci insieme una storiella: Le mosche.

 

“In una dispensa s’era versato del miele. Le mosche, accorse, se lo succhiavano, e la dolcezza era tale che non sapevano staccarsene. Quando però le loro zampe vi rimasero impigliate e, incapaci di levarsi a volo, esse si sentirono affogare, esclamarono: “Poverette noi! Per un attimo di dolcezza ci rimettiamo la vita! Così la ghiottoneria è causa di numerosi guai per molte persone.”

 

Da un’attenta lettura della sua opera emerge una visione del mondo dominata dal pessimismo, nella convinzione che la legge del più forte regoli tutti i rapporti sociali. Per gli uomini più deboli, pertanto, non esiste via di salvezza se non rassegnarsi al proprio destino. Nemmeno l’astuzia, che in alcuni casi aiuta ad evitare il peggio, pone completamente gli indifesi al riparo dalle soverchierie dei più forti.

 

L’entrata del labirinto di Versailles, con le statue di Esopo e Cupido

 

Per quanto la figura di Esopo resti sospesa nel limbo tra la realtà storica e la leggenda, è innegabile l’influenza determinata dalla sua opera sui posteri. Primo fra tutti Fedro – 15 a. C. – 51 d. C. – che ebbe il merito di iniziare per primo la letteratura latina al genere delle favole, ma con un’emblematica novità rispetto al suo maestro: i suoi racconti, infatti, sono scritti in poesia, mentre Esopo aveva preferito la prosa. Fedro, insomma, decise di lavorare seguendo un criterio di emulatio più che di imitatio.

Ma la sua fama non è limitata al mondo antico. Si narra che il re di Francia Luigi XIV fosse un appassionato lettore delle Favole e lo dimostra bene il labirinto da lui fatto realizzare alla reggia di Versailles, al cui interno si trovavano trentanove fontane e statue a simboleggiare i racconti che più lo avevano colpito. Tra i suoi emuli moderni spiccano il francese Jean de La Fontaine e l’italiano Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa.

 

Trilussa

 

In conclusione, riporto questa simpatica storiella che ha per protagonista le rane, perché ci insegna saggiamente ad accontentarci di quello che abbiamo e a realizzare l’insegnamento di quel famoso proverbio che dice: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova”.

 

Le rane che chiesero un re

“Le ranocchie, stanche di vivere senza alcuno che le governasse, mandarono ambasciatori a Zeus, pregandolo di affidare loro un re. E Zeus, vedendo la semplicità del loro animo, buttò giù nello stagno un pezzo di legno. A tutta prima, atterrite dal tonfo, le ranocchie si tuffarono nel fondo; ma poi, dato che il legno rimaneva immobile, risalirono a galla, e giunsero a tal punto di disprezzo per il loro re che gli saltarono addosso e vi si accomodarono sopra. Infine, vergognandosi d’avere un sovrano di tal fatta, andarono nuovamente da Zeus, e lo pregarono di mandarne loro un altro in cambio, perché il primo era troppo indolente. Allora Zeus perdette la pazienza, e mandò una biscia d’acqua, che cominciò ad afferrarle e a divorarsele.
La favola mostra che è meglio avere governanti infingardi ma non cattivi, piuttosto che turbolenti e malvagi.”

 

BIBLIOGRAFIA