Tutelare e conservare il nostro passato: i beni culturali nel diritto internazionale

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Benedetta Giuliani, Roma –

Nel dibattito pubblico contemporaneo non è infrequente imbattersi nella questione dei beni culturali e delle problematiche connesse alla loro conservazione e valorizzazione in un’ottica di economia di mercato. La definizione di politiche per la tutela del patrimonio storico-culturale, tuttavia, è un fenomeno di lungo corso che affonda le proprie radici nel diritto internazionale del XIX secolo.

A ben vedere, l’emergere del concetto di “bene culturale” è legato alla normalizzazione del diritto bellico volto a disciplinare alcuni aspetti dei conflitti armati. Una formulazione embrionale dell’idea di bene culturale può essere rintracciata nella Dichiarazione internazionale sulle leggi e gli usi della guerra, accordo formulato in seno a una conferenza indetta dallo zar Alessandro II nel 1874. L’articolo ottavo della Dichiarazione prescriveva che, in caso di guerra, i belligeranti avrebbero dovuto impegnarsi per la tutela dei luoghi di culto e accoglienza, nonché di quelli dedicati alle arti e alla scienza. La Dichiarazione rendeva legalmente perseguibile “il sequestro, la distruzione o il danneggiamento volontario” di luoghi di culto o di interesse storico-artistico: un principio innovativo che sarebbe stato poi incorporato nelle moderne leggi sulla preservazione del patrimonio culturale. L’espansione e l’innovazione che investirono l’industria bellica ebbero una drammatica ricaduta sui conflitti, sempre più caratterizzati da un impiego massiccio dell’artiglieria pesante, i cui effetti sul paesaggio naturale e urbano erano devastanti; ciò indusse i governi ad adottare misure più rigorose per la difesa dei siti religiosi e dei monumenti storici. Il codice The Laws of War on Land, edito nel 1880, specificava che:

 

In case of bombardment all necessary step must be taken to spare […] buildings dedicated to religion, art, science and charitable purposes […] It is the duty of the besieged to indicate the presence of such buildings by visible signs notified to the assailant beforehand.

 

Misure analoghe di tutela vennero inserite anche nella seconda e nella quarta Convenzione dell’Aja siglate, rispettivamente, nel 1899 e nel 1907. I regolamenti approvati tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, tuttavia, garantivano la salvaguardia del patrimonio culturale solamente per la durata delle ostilità. L’idea della conservazione sistematica e, soprattutto, della valorizzazione in tempo di pace emerse soltanto nel secondo dopoguerra, in seguito all’approvazione della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, siglata all’Aja nel 1954. La Convenzione costituisce il primo testo normativo in cui compare il termine “bene culturale” al quale si attribuisce una connotazione più ampia e al tempo stesso più precisa rispetto ai trattati ottocenteschi, nei quali le strutture degne di tutela venivano identificate per lo più con i luoghi di culto. Così l’articolo primo della Convenzione definiva i beni culturali:

I beni, mobili o immobili, di grande importanza per il patrimonio culturale dei popoli, come i monumenti architettonici, di arte o di storia, religiosi o laici; le località archeologiche; i complessi di costruzione che, nel loro insieme, offrono un interesse storico o artistico; le opere d’arte, i manoscritti, libri e altri oggetti d’interesse artistico, storico, o archeologico; nonché le collezioni scientifiche e le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzione dei beni sopra definiti.
La Convenzione istituiva inoltre un principio di reciprocità nella salvaguardia dei beni, imponendo a ciascun firmatario di rispettare

 

“i beni culturali, situati sia sul loro proprio territorio, che su quello delle Alte Parti Contraenti, astenendosi dall’utilizzazione di tali beni […] per scopi che potrebbero esporli a distruzione o a deterioramento in casi di conflitto armato”.

 

La Convenzione del 1954 stabilì che i luoghi di valore storico-artistico fossero contrassegnati da uno scudo bianco e blu affinché, in caso di conflitto, potessero essere identificati dai militari e quindi risparmiati dalla distruzione.

La legislazione sovranazionale sulla preservazione dei beni culturali fu ulteriormente perfezionata con la Convenzione UNESCO del 1972 sulla “tutela del patrimonio culturale e naturale mondiale”.  Rispetto al testo del 1954, la Convenzione del 1972 si poneva in un rapporto di continuità e innovazione. Continuità, perché come il suo predecessore attribuiva ai beni culturali un valore universale; innovazione perché estendeva la tutela giuridica anche all’ambiente naturale. L’accordo prevedeva che gli Stati avrebbero dovuto agire sul territorio nazionale per garantire “la protezione, la conservazione, la valorizzazione” dei beni culturali-naturali e, per coadiuvarli nell’impresa, istituiva un Comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale. In accordo con gli Stati partecipanti, al Comitato sarebbe spettato l’incarico di mappare l’identità e lo stato di conservazione del patrimonio culturale-naturale attraverso due elenchi: la World Heritage List e la List of World Heritage in Danger.

Negli ultimi tempi, l’attenzione delle autorità nazionali e internazionali preposte alla conservazione e alla salvaguardia dei beni culturali è andata focalizzandosi sul patrimonio elencato nell’ultima lista. La conflittualità endemica di alcune zone, in particolare il Medio Oriente e l’Africa, ha creato una situazione per cui una porzione consistente del patrimonio mondiale rischia di scomparire. Le risposte legislative a questo fenomeno non sono mancate fin dal 2003, quando l’UNESCO approvò la Dichiarazione sulla distruzione del patrimonio culturale in risposta alla distruzione dei Buddha del Bamiyan ad opera dei Talebani. La Dichiarazione esplicita il dovere, da parte degli Stati, di tutelare i beni culturali e stabilisce che

 

lo Stato che distrugge intenzionalmente il patrimonio culturale […] o che si astiene intenzionalmente dal prendere misure appropriate per interdire […] e sanzionare ogni distruzione intenzionale di tale patrimonio” sarà considerato penalmente perseguibile ai sensi del diritto internazionale.

 

I Buddha del Bamiyan furono distrutti in una complessa operazione, durata venticinque giorni, ordinata dal governo talebano il quale motivò l’abbattimento sostenendo che “these idols have been gods of the infidels”

 

L’efficacia della Dichiarazione, tuttavia, non può che essere limitata dal momento che i Paesi in cui il rischio di distruzione dei beni è maggiore sono caratterizzati dall’assenza di un governo ufficiale e da guerre civili che rendono impraticabile innanzitutto la difesa della popolazione civile. È il caso, ad esempio, della Siria dove la distruzione di preziosi siti archeologici è dovuta o agli attacchi volontari dello Stato Islamico o è il risultato degli scontri tra i ribelli e l’esercito di Assad.

 

Le rovine di Palmira, devastate dalle milizie dello Stato Islamico

 

La comunità internazionale ha cercato di contrastare in diversi modi la distruzione dei beni culturali, ad esempio classificandola come crimine di guerra. Ma, rispetto al passato, l’iniziativa di identificazione e tutela non è più affidata alle sole istituzioni, poiché queste ultime possono avvalersi dell’operato di centri di ricerca che effettuano una costante opera di vigilanza sui beni più a rischio. Un esempio in tal senso è fornito dall’American School of Oriental Research (ASOR) la quale, attraverso la creazione di un apposito database, ha raccolto e pubblicato informazioni sulle condizioni del patrimonio culturale in aree a rischio come Siria e Iraq del Nord.

Il monitoraggio effettuato da enti come l’ASOR, in cui l’uso della tecnologia satellitare si combina con la raccolta e l’incrocio di informazioni provenienti da media differenti — dai giornali ai social media — costituisce, ad oggi, uno dei più innovativi strumenti di controllo sullo stato del patrimonio culturale dell’umanità nelle zone di guerre.

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