22 agosto 1268: la battaglia di Tagliacozzo, ovvero la fine del sogno imperiale degli Hohenstaufen

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Corradino di Svevia

Jessica Romiti, Torino –

Guelfi e ghibellini

La battaglia di Tagliacozzo del 22 agosto 1268 può essere vista come l’ultimo atto della grande lotta che vide opporsi, per più di un secolo, la fazione dei Guelfi a quella dei Ghibellini.

Lo scontro iniziò nel 1125, in occasione della morte dell’imperatore Enrico V. Fu in questo momento che si crearono due fazioni che si contesero il trono di Germania: quella dei Welfen, duchi di Baviera, in posizioni favorevoli a Roma, e quella degli Hohenstaufen, duchi di Svevia. Questi ultimi, conosciuti per il possesso del castello di Waiblingen, volevano rafforzare l’autorità regia contro l’invadenza del Papato.

Questa lotta per il potere, inizialmente tutta di stampo tedesca, col tempo venne presto traslata anche in Italia, dove andò a convergere in una conflittualità locale.

Nel 1137, dallo scontro tra le varie fazioni tedesche, emerse Corrado III Hohenstaufen: da quel momento, e fino alla metà del XIII secolo, ci sarà sempre sul trono di Germania, e conseguentemente sul trono imperiale, uno Svevo.

 

Corradino di Svevia impegnato nella caccia al falcone, in una miniatura del XIV secolo

 

Antefatto

Il preludio della battaglia si può riscontrare con la morte di Federico II di Svevia, avvenuta  nel 1250. Il titolo di re di Germania passò, dunque, al figlio legittimo, Corrado IV. Al figlio naturale, Manfredi, venne invece affidata la luogotenenza dell’Italia e della Sicilia nel periodo della minorità di Corradino (figlio di Corrado IV). Di fatto, si impossessò del potere.

Poiché Papa Innocenzo III aveva riconosciuto Corradino come re di Gerusalemme e come duca di Svevia, ma non come re di Sicilia, nel 1254 Manfredi rivendicò il dominio sul Regno di Sicilia, riconoscendo Corradino come semplice baiulus, magistrato preposto all’amministrazione regia in sede periferica, di Sicilia. Queste mosse, in realtà, celavano progetti ben più ampi, culminati il 10 agosto 1258: in questa occasione, Manfredi, a dispetto delle prerogative del nipote, si fece incoronare re di Sicilia.

Il Pontefice, preoccupato dal celere sviluppo della successione al trono del Regnum, si oppose a questo evento, assegnando a sua volta la corona a Carlo I d’Angiò; così il 22 febbraio 1266 le due parti si scontrarono nella battaglia di Benevento, in cui Manfredi perse la vita.

È a questo punto che i ghibellini italiani, non ancora perse le speranze, chiesero la discesa in Italia dell’ultimo superstite svevo. Le loro richieste vennero presto esaudite: nel 1267, il giovane Corradino si preparò per la riconquista del suo regno. La sua avanzata nella Penisola fu trionfale quanto effimera: trovò una calorosa accoglienza a Verona e Pavia. Dalla fedelissima Pisa gli furono messi a disposizione denaro e, addirittura, la flotta. Infine, a Roma gli venne tributato un vero e proprio trionfo – celebrato anche grazie alla contemporanea assenza del Pontefice, che scelse di ritirarsi nella ben più difendibile Viterbo.

Corradino, tuttavia, valutò anche l’idea di espugnare la Città, così da poter fare prigioniero il Successore di Pietro. Alla fine, però, accantonò questi propositi, soprattutto per gli esiti, controproducenti, prodotti da un simile gesto.

 

 

Disposizione dei due eserciti durante la battaglia. Fonte: warfare.it

 

La battaglia

Carlo d’Angiò, sapute le intenzioni del giovane svevo, già agli inizi di agosto corse a rafforzare i confini settentrionali del regno recentemente conquistato. Dopo settimane di spostamenti e rincorrersi di eserciti, infine, la sera del 22 agosto 1268 i due si trovarono uno di fronte l’altro, alle opposte rive di un ruscello – sulla destra Corradino, sulla sinistra Carlo d’Angiò – ai Piani Palentini, tra  Magliano dei Marsi e Tagliacozzo, in Abruzzo.

L’esercito svevo contava circa 5.000 uomini e il giorno della battaglia era diviso in tre formazioni: la prima era composta di cavalieri tedeschi, ghibellini toscani e rifugiati del regno di Sicilia, comandati rispettivamente da Kroff di Flünglichen, Corrado di Antiochia e Galvano Lancia. La seconda schiera era formata da spagnoli e ghibellini romani ed era guidata dal senatore di Roma, Enrico di Castiglia. La terza, infine, annoverava ghibellini lombardi, ed era posta sotto il comando dal marchese Pelavicino. In essa si trovava anche Corradino, attorniato dalla sua guardia del corpo.

A sua volta, anche l’esercito di Carlo d’Angiò, che non superava le 4.000 unità, era diviso in tre schiere. La prima, composta di provenzali e guelfi italiani, era comandata dal maresciallo di Francia Henri de Courence; la seconda era formata di mercenari francesi e condotta da Jean de Clary e dal siniscalco di Provenza Guillame L’Estendart; la terza, infine, era guidata dallo stesso Carlo e composta da 1.000 tra i più esperti e valorosi cavalieri del re.

Il piano ideato dal sovrano francese era stato concepito insieme al fidato consigliere di guerra, Alardo di Valèry. Quest’ultimo, di ritorno dalla Terrasanta, aveva appreso in Oriente alcune tecniche di combattimento dei Saraceni che volle riproporre su questo campo di battaglia. La strategia, ideata per sopperire allo svantaggio numerico, prevedeva una strategia tanto semplice quanto letale: due schiere sarebbero andate all’attacco del nemico mentre la terza, posta di riserva e nascosta tra le colline, avrebbe attaccato di sorpresa e alle spalle il nemico. Le prime due schiere angioine dovevano, inoltre, muovere all’attacco per attirare il nemico sul terreno collinoso, al di qua del ruscello, così da accerchiarli e impedirne la fuga.

Gli imperiali, dunque, si trovarono di fronte due schiere leggermente sfasate con al centro Carlo, che ostentava le insegne reali. Ovviamente, si trattava di un abile stratagemma: al suo posto c’era Henri de Courence, mentre il sovrano angioino si trovava a capo della riserva, celata allo sguardo del nemico.

Gli imperiali, caduti nel tranello, attraversarono vigorosamente il corso d’acqua, ponendosi subito in posizione d’attacco: la carica fu così furiosa, che l’esercito Svevo sbaragliò velocemente i nemici. Caddero anche le insegne con i Gigli di Francia, cosicché l’esercito di Corradino credette di aver ucciso il re.

In preda alla gioia quella che sembrava, agli occhi di tutti, una chiara vittoria, le truppe sveve ruppero lo schieramento, sparpagliandosi per il campo in cerca di bottino.

Fu a questo punto che Carlo d’Angiò fece la sua comparsa, attaccando gli Svevi che, colti di sorpresa, dopo un aspro e breve combattimento, furono sbaragliati.

Corradino si diede alla fuga verso Roma. Enrico di Castiglia, allontanatosi dal campo di battaglia già durante le sue prime fasi, ritornò sul luogo dello scontro dopo aver smesso d’inseguire i nemici in fuga. Qui, accortosi della situazione, il nobile non si perse d’animo ma, anzi, riordinò le sue fila, nel tentativo di capovolgere le sorti della battaglia.

Tuttavia, anche in questo caso le armi sveve caddero in un tranello ordito dalla controparte angioina. I cavalieri di Carlo, infatti, simularono una fuga, attirando così le truppe di Enrico di Castiglia. Queste ultime, una volta rotta lo schieramento, furono facile preda delle truppe angioine: l’esercito svevo poteva dirsi definitivamente sconfitto.

Decapitazione di Corradino di Svevia in una miniatura del XIV secolo

Conseguenze

Come detto, Corradino fece rotta verso Roma. Resosi conto che l’Urbe non era poi tanto sicura, ripiegò su Torre Astura, località costiera del litorale romano posta vicino Nettuno, con l’intenzione forse di prendere il mare verso i domini di Pisa. Qui, tuttavia, fu tradito da Giovanni Frangipane, signore del luogo, il quale lo intercettò in mare e lo costrinse a tornare indietro. Fu rinchiuso nel castello e infine, dietro promessa di denaro e terre, fu consegnato a Carlo d’Angiò.

Seguì il processo e la condanna a morte, che venne eseguita il 29 ottobre del 1268 a Napoli: Corradino fu decapitato a Campo Moricino, corrispondente all’odierna piazza del Mercato della Città partenopea. Moriva, all’età di soli 16 anni, l’ultimo degli Hohenstaufen. Con lui tramontava anche il progetto degli Svevi di vedere la Penisola unita sotto l’autorità imperiale, indipendente dal potere della Chiesa.

Ma soprattutto, nonostante alcuni momenti di speranza e di ingannevole rinascita negli anni seguenti, la battaglia di Tagliacozzo rappresentò un colpo mortale per il partito ghibellino e per quanti credevano nel sogno imperiale.

LE LETTURE CONSIGLIATE:

  • D. Colasante, Giornata fatale : 23 agosto 1268 la battaglia di Tagliacozzo, Roma, Ginevra Bentivoglio Editore, 2018
  • M. Citarelli-M. Cozza-A. Fabri, La battaglia di Tagliacozzo, 1268, Isomedia, 2017